Ho partecipato con un gruppo di parlamentari del Partito democratico al presidio in piazza Montecitorio indetto da Cgil, Cisl, Uil e Ugl per protestare contro la manovra. Ho ascoltato gli interventi dei segretari generali del sindacato che richiedevano maggiore equità.
Su questa traiettoria abbiamo sentito una forte convergenza con il tentativo che il Pd sta portando avanti nelle commissioni bilancio e finanze per correggere alcuni punti della manovra al fine di renderla socialmente più accettabile.
Siamo andati ad ascoltare e a portare le nostre opinioni, laddove ci sono state richieste dai lavoratori e dai pensionati, e per spiegare in che cosa consista il nostro tentativo, con gli emendamenti, di collegare il rigore alla crescita e all’equità.
Del resto, la scorsa settimana abbiamo raggiunto un’importante intesa tra Pd, Pdl e Terzo polo in commissione lavoro della camera, quando abbiamo sottoscritto un parere sulla manovra che richiedeva unitariamente alcuni interventi di cambiamento.
Il primo, con la richiesta di indicizzazione delle pensioni fino a tre volte il minimo, cioè 1.440 euro mensili lordi. Il secondo, con la richiesta di una graduale correzione della scelta del governo di eliminare in un solo colpo le cosiddette “quote” che consentivano l’accesso alla pensione.
In sostanza, con le vecchie norme, un lavoratore che nel 2012 compie 60 anni di età e ne ha totalizzato 36 di contributi (quota 96), sarebbe andato in pensione. Adesso dovrà aspettare altri 6 anni: il doppio di quanto previsto dal tanto vituperato “scalone Maroni”.
Il terzo punto è relativo alla richiesta di cancellazione delle penalizzazioni del 2% all’anno sull’assegno pensionistico a carico di quei lavoratori che vanno in pensione con i 42 anni di contributi, nel caso in cui non abbiano ancora compiuto i 62 anni di età. Un carico ingiusto sulle spalle di chi, avendo cominciato a lavorare in un’età compresa tra i 15 e i 19 anni, ha svolto prevalentemente lavori manuali e che, dal momento in cui andrà in pensione, avrà un’aspettativa di vita di 6 anni inferiore a quella di un professore universitario. Infine, abbiamo affrontato il tema dei lavoratori in mobilità.
A mio avviso, va abolito il tetto dei 50mila e inclusi coloro che hanno stipulato accordi di mobilità anche dopo la data del 31 ottobre scorso e coloro che, pur non avendo un accordo perché inseriti in un’azienda di piccola dimensione, si sono licenziati nella previsione di andare in pensione, con le vecchie regole, nell’arco di 1 o 2 anni. Costoro non possono rimanere in sospeso: senza stipendio, indennità o pensione per 5 o 6 anni. Come si vede si tratta di interventi di giustizia sociale, misurati e selezionati, che consentono l’invarianza dei saldi della manovra attraverso un semplice spostamento dei prelievi dalle pensioni verso i patrimoni.
Va rilevato il fatto che la manovra del governo Monti ha avuto come primo effetto quello del ricompattamento, a mio avviso positivo, del sindacato. Per la prima volta abbiamo visto manifestazioni, con la presenza dei leaders delle quattro principali confederazioni, muoversi su una piattaforma sostanzialmente unitaria. Quel che è chiaro è che il governo dovrà ascoltare con attenzione due voci autorevoli: quella dei partiti che sostengono l’esecutivo e quella delle parti sociali che reclamano un’azione di concertazione. Voci che all’unisono chiedono maggiore equità, senza disconoscere l’esigenza del rigore, perché tutti ci rendiamo perfettamente conto che la barca sta affondando.
Sarà importante verificare come questo primo atto si concluderà dal punto di vista dei contenuti e della capacità di raccogliere le richieste fondamentali di cambiamento.
Ad essa dovrà collegarsi il secondo tempo, quello dedicato al tema del mercato del lavoro. Il governo ha annunciato che su di esso si svolgerà un ampio confronto con le parti sociali, e questo è positivo. Bisogna però sapere che ammortizzatori sociali capaci di tutelare efficacemente i lavoratori nell’attuale momento di crisi richiedono risorse importanti che, ci auguriamo, il governo abbia già provveduto a mettere da parte. Del resto, la situazione italiana è sempre stata criticata per un eccessivo squilibrio del sistema a vantaggio delle pensioni e a scapito dello stato sociale.
Poiché la previdenza ha abbondantemente saldato i suoi conti con le scelte di questo governo e di quello precedente, si tratta ora di andare verso un riequilibrio a favore del welfare. Al contrario, una riforma debole e magari accompagnata dalla modifica in senso restrittivo dell’articolo 18, anche con l’introduzione della clausola della licenziabilità per motivi economici, sancirebbe una conclusione della manovra per il risanamento del bilancio tutta a carico del mondo del lavoro e dei pensionati. Una logica per noi difficile da accettare.
da Europa Quotidiano 13.12.11