La premialità paga solo se condivisa e fatta a regola d’arte. Parola di Barbara Ischinger direttore education dell’Ocse, intervenuta al convegno sulla valutazione dei docenti svoltosi al CNR di Roma lo scorso 7 dicembre, alla presenza del neo ministro dell’istruzione Francesco Profumo. Tutti d’accordo sulla necessità di valutare i docenti.
Ma quando si entra nel vivo della premialità, non sembrano tutte rose e fiori. Il nodo è quello della premialità dei docenti calcolata sulla base della loro reputazione, come previsto dal progetto Valorizza dell’associazione Treellle. Il nostro, va ricordato, è un sistema scolastico che deve fare i conti con uno stato giuridico dei docenti pensato a garanzia delle finalità democratiche perseguite dalla Costituzione. I docenti sono intestatari di potestà autoritative che si esprimono attraverso l’adozione di comportamenti e atti che vanno dalla didattica alla valutazione degli studenti, la quale, in ultima istanza, risulta espressa collegialmente negli scrutini come previsto dal Regio decreto 653 del 1925. Ma come si concilia l’idea oligarchica dell’eccellenza con quella dell’esercizio di funzioni pubbliche a garanzia del buon andamento e dell’imparzialità dell’azione amministrativa, alcune delle quali addirittura collegialmente adottate? In ultima istanza, infatti, la scuola eroga titoli di studio aventi valore legale (e la querelle sulla validità dei titoli degli Its per l’accesso agli albi professionali dimostra quanto sia delicata la questione). Il valore dei docenti va calcolato, allora, sulla base dell’ineccepibilità dei procedimenti attuati nell’esercizio delle loro pubbliche funzioni, che resta non a caso reclutato attraverso pubblici concorsi. Ma «i docenti eccellenti sono pochi per definizione», afferma Luisa Ribolzi dell’Anvur, per cui è possibile riconoscerli sulla base della loro reputazione. A questo punto viene spontaneo chiedersi se non sia rischioso trasmettere l’idea che in un collegio dei docenti quelli meritevoli siano solo una minoranza, ratificata dal gradimento espresso da colleghi, alunni e genitori. Di questo passo chissà se interpretando altrettanto estensivamente il principio della corresponsabilità educativa, sancita dal dpr 235 del 2007, a qualcuno non venga in mente di valutare anche i genitori. E poi, si chiedono nelle scuole, perché non si è deciso di lavorare sugli strumenti di carriera organizzativa già a disposizione? Giusto per fare un esempio, le funzioni strumentali al piano dell’offerta formativa. Se lo chiede la stessa Banca d’Italia, con Paolo Sestito: è proprio indispensabile puntare al merito attraverso la reputazione e rischiare così la tenuta cooperativa delle scuole? «O non sarà il caso di puntare alla condivisione di un’unità di misura del valore aggiunto», che la scuola deve invece garantire all’utente? Essa incide infatti sul 20% delle conoscenze degli studenti, è lo stesso ministro Profumo a sottolinearlo: «É in quel 20% che dobbiamo fare la differenza». Forse sarà allora più utile ragionare, come fanno ad esempio negli Stati Uniti, sugli indicatori di performance organizzativa della scuola nel suo complesso. Giovanni Biondi, capodipartimento dell’istruzione, annuncia il varo di un osservatorio sulla tenuta di asset come l’inclusione, l’orientamento, il recupero, il potenziamento, la valutazione. Le scuole che non chiuderanno in positivo su queste dimensioni saranno messe sotto osservazione e se non correggeranno il tiro, entro due anni, verrebbero accorpate alle migliori. Questo allora il modo per affrontare la sfida della valutazione dei docenti? In ogni caso, che il dado sia tratto è fuori discussione. Ma è altrettanto indubbio che non possiamo permetterci errori, come accaduto già in passato. Il concorsaccio dei tempi di Berlinguer insegna.
da ItaliaOggi 13.12.11