attualità, pari opportunità | diritti

"Se la maternità è una colpa", di Luigina Venturelli

L’arretratezza culturale nei confronti delle lavoratrici donne e della maternità è stata finora considerata un vizio strutturale del sistema imprenditoriale italiano, una debolezza da lamentare ma comunque da sopportare. Adesso, però, qualcosa dovrà necessariamente cambiare: con l’attuale crisi finanziaria e il precario stato dei conti pubblici, per usare le parole dell’economista Paola Profeta, «è uno spreco che non ci possiamo più permettere». E non si tratta di uno spreco di poco conto, ma di un’enorme perdita di risorse umane ed economiche: solo nel 2010 sono state circa 800mila le donne che hanno dovuto lasciare il lavoro per cause legate alla maternità.

Certo, la stima elaborata dalla Cgil comprende sia le lavoratrici che sono state licenziate o costrette alle dimissioni dalle aziende, sia quelle che hanno scelto autonomamente di lasciare il posto per dedicarsi alla cura dei figli. Ma questo non cambia in alcun modo l’allarme lanciato ogni al nostro sistema produttivo da quasi un milione di donne sull’impossibilità di coniugare maternità e vita professionale, soprattutto per le donne giovani (13% dei casi), che vivono al Sud (10%) e con bassi titoli di studio (10%).

Rimandate a casa
«A volte le imprese sono apertamente ostili nei confronti delle dipendenti divenute madri, altre si limitano ad imporre un’organizzazione del lavoro difficilmente coniugabile con la nuova situazione. A volte i servizi sociali non ci sono, altre volte sono troppo cari, e la donna sceglie di restare a casa perchè non può pagare l’asilo nido» racconta Rossana Rosi, la responsabile Pari opportunità del sindacato di Corso Italia. «In ogni caso le donne vengono lasciate sole ad affrontare la situazione e solo il 40% ritrova in seguito un’occupazione». Non stupisce, dunque, che il tasso di occupazione femminile nel nostro Paese sia al 46%, il livello più basso di tutta Europa, e che il tasso d’inattività, di chi nemmeno cerca più un impiego, sia al 48,9%.

«Questo stato di cose non è più sostenibile, soprattutto oggi: l’occupazione delle donne è uno strumento di crescita e noi non possiamo escludere metà della nostra forza lavoro» spiega Profeta, docente di Scienza delle finanze all’Università Bocconi di Milano. «Secondo una nostra recente ricerca, 100mila donne in più al lavoro porterebbero ad un aumento del Pil dello 0,28%. Secondo stime della Banca d’Italia, inoltre, se il tasso raggiungesse il 60% previsto dagli obiettivi di Lisbona, il Pil crescerebbe addirittura del 7%».

LE DIMISSIONI IN BIANCO
Gli strumenti per iniziare a sanare questa perdita economica – senza soffermarsi su quella sociale, culturale e demografica – sono noti: investimenti in servizi sociali, agevolazioni fiscali per le donne con carichi familiari, introduzione dei congedi parentali per i padri, e strumenti per incentivare la conciliazione lavoro-maternità e punire le discriminazioni. Ad esempio, si potrebbe cominciare ripristinando la legge 188 del 2007 – abrogata dall’ex governo Berlusconi – per prevenire le dimissioni in bianco, pratica illegale, in base alla quale le aziende spesso fanno firmare alle neoassunte delle dimissioni senza data da compilare in caso di futura gravidanza.

«Nell’ultimo anno, al Centro donna della Camera del lavoro di Milano – racconta la responsabile Maria Costa – abbiamo ricevuto un migliaio di segnalazioni di discriminazioni sul lavoro: le aziende hanno un forte pregiudizio culturale nei confronti delle neo-mamme e le donne troppo spesso, capendo che tira brutta aria, si dimettono entro l’anno di vita del bambino per non perdere otto mesi di assegno di disoccupazione».

L’Unità 11.12.11