attualità, politica italiana

"Dare un senso alla rinuncia", di Michela Marzano

Quando si parla di sacrifici non è tanto difficile deciderli quanto saper convincere gli altri che devono farli. Difficile è dare un senso alla rinuncia che viene chiesta. Perché il principio di utilità, che secondo Bentham è l´unico criterio con cui si può giudicare l´adeguatezza dell´azione umana, funziona perfettamente sul piano teorico, ma poi, quando dalla teoria si passa ai fatti, diventa molto meno seducente. Quando si parla di sacrifici, infatti, non è più solo una questione di calcolo razionale o di massimizzazione del bisogno collettivo. La voglia di agire per il bene del proprio paese e delle generazioni future – quello dei propri figli e dei propri nipoti – non può che scontrarsi con la durezza della realtà e con la necessità di mettere tra parentesi il proprio benessere individuale. Il desiderio di agire bene, si infrange inesorabilmente contro la violenza intrinseca del sacrificio. Soprattutto quando il sacrificio non riguarda solo il “superfluo” ma anche il “necessario”. Come si fa a sacrificare il poco, talvolta il “quasi niente”? Si può rinunciare a un beneficio, ottenuto grazie al proprio lavoro, solo perché si deve?
Originariamente, il sacrificio era un´offerta fatta agli dei: seguendo alcune cerimonie, si offrivano alle divinità vittime e doni. Come nel caso di Ifigenia. Ed è sempre nel nome del bene generale, che alcuni utilitaristi contemporanei continuano a giustificare il ricorso al sacrificio. Il filosofo John Harris , di fronte al problema della scarsità di organi da trapiantare, teorizza la possibilità di utilizzare un individuo, sacrificandolo, se questo permette poi di salvarne molti altri. Certo, ormai non si parla più di sacrificio in termini religiosi. E d´altra parte i sacrifici di oggi, dettati dalla crisi, riguardano le singole persone: ognuno dovrebbe “cedere” qualcosa di suo, rinunciare, lavorare di più, ancora. Il problema di fronte al quale ci si trova, allora, non è tanto quello della giustificazione morale del sacrificio. È piuttosto il suo “costo” in termini psicologici e umani. Visto che, nonostante tutto, saranno altri a godersene i frutti. Come fare allora a sopportare questo peso individuale? Solo dando un senso, appunto.
Chiunque abbia un po´ di dimestichezza con la psiche umana e il suo delicato modo di funzionare, sa bene che, oltre all´utilità economica, esiste anche un´utilità psichica. E che, a livello psicologico, la consapevolezza di sacrificarsi per una causa importante ha talvolta il merito di dare un senso alla propria vita. Ecco perché, in termini di economia psichica, anche chi sacrifica qualcosa di sé riceve sempre qualcosa d´altro. Come Babette, nel racconto di Karen Blixen, che sacrifica tutto quello che ha vinto alla lotteria per organizzare una grande festa. Perché l´unica cosa che resta, alla fine della propria vita, è tutto quello che si è donato agli altri, dice Babette. Dietro tanti sacrifici, oltre all´arida utilità economica, c´è anche la nozione di dono. Quando doniamo qualcosa, non possiamo mai essere sicuri che il dono fatto sarà poi ricambiato. La maggior parte delle volte non lo è. Eppure è proprio il dono che permettere alle relazioni interpersonali di esistere e di svilupparsi. Dunque l´unico modo realistico per convincere a sopportare un peso psicologico così grande è quello di entrare in una economia collettiva dove si deve pensare che si sta “regalando” una parte di sé per salvare qualcosa, qualcuno. Il presente, il futuro.

La Repubblica 08.12.11

******

“Una storia che ritorna”, di GUIDO CRAINZ

“Oro per la patria” chiese il fascismo agli italiani per sostenere la guerra di aggressione all´Etiopia, e nella “giornata della fede” le donne furono chiamate a donare l´anello nuziale.
Cominciò così il percorso che ci avrebbe portati alla tragedia della seconda guerra mondiale, e la Liberazione vide un Paese piegato e piagato. Un Paese che seppe però trovare la forza per risollevarsi e dare avvio ad una Ricostruzione materiale ed etica. In un quadro di drammatica miseria e di inflazione senza freni la moderazione responsabilmente scelta dal sindacato portò a sacrifici pesanti per i lavoratori ma fu decisiva. Ad essa non corrisposero però altre misure: ad esempio una imposta patrimoniale straordinaria e progressiva, e un cambio della moneta volto a colpire gli arricchimenti occulti. Le avevano proposte con forza le sinistre, che parteciparono al governo sino al 1947, ma vi si opposero la destra conservatrice e i grandi poteri economici e finanziari. E le sinistre furono poi estromesse dal governo nel clima della “guerra fredda”.
Per risollevarci furono certo decisivi gli aiuti americani e il Piano Marshall ma quel clima pesò negativamente. Alimentò un´offensiva anticomunista e antisindacale che aprì la via a licenziamenti massicci, ad uno sfruttamento intenso nelle fabbriche e al mantenimento di salari bassissimi: profonde iniquità sociali segnarono così il nostro sviluppo e contribuirono alla sua interna debolezza. Ebbero radici qui le tensioni che emersero negli anni del “miracolo”, ulteriormente alimentate poi da una dura controffensiva padronale. E destinate inevitabilmente ad esplodere: vennero così l´”autunno caldo” del 1969 e una “conflittualità permanente” che rese più acuta da noi la crisi degli anni settanta. Una crisi aggravata dallo shock petrolifero del 1973, che accentuò la nostra fragilità e mandò in frantumi la più generale illusione di uno “sviluppo senza limiti”.
Negli anni Ottanta rimuovemmo quei nodi e dimenticammo colpevolmente che stavano crescendo ormai “i figli del trilione”, come fu detto: si stava avvicinando infatti a cifre stratosferiche il debito pubblico che gli adulti stavano scaricando sulle loro spalle. E che salì dal 60% del Pil nel 1981 al 120% e oltre dei primi anni Novanta. La crisi internazionale mise allora impietosamente a nudo le nostre responsabilità, ruppe il “patto di finzione” su cui era apparentemente prosperata l´Italia craxiana e ci fece giungere in pessime condizioni alla sfida europea. Una sfida che apparve allora quasi impossibile ma che venne affrontata positivamente grazie al duro sforzo di risanamento iniziato dai governi guidati fra il 1992 e il 1994 da Amato prima e da Ciampi poi. Furono aiutati da sofferte scelte sindacali sul costo del lavoro (e dal coraggio di leader come Bruno Trentin), e furono meno condizionati che in passato dai partiti, travolti dalla bufera di Tangentopoli. Un paradosso, a ben vedere, che avrebbe dovuto imporre una riflessione profonda e una rigenerazione radicale della classe dirigente: così non fu, e ad una parte del Paese il “nuovo” parve identificarsi allora con le illusioni del populismo antipolitico e mediatico.
Il severo risanamento fu proseguito invece dal primo governo Prodi, che ci assicurò l´ingresso in Europa. Forse in qualcosa fu troppo debole: ad esempio nel farci comprendere il significato profondo del progetto che giustificava i sacrifici. Nell´aiutarci a dare corpo e soprattutto anima ad un futuro europeo da costruire. Oggi abbiamo di fronte lo stesso nodo, ulteriormente aggravato.

La Repubblica 123.12.11