La cattura di Michele Zagaria, capo storico della «mafia dei Casalesi» e conosciuto ai più con l’eloquente nomignolo di «Capastorta», può davvero considerarsi una pietra miliare della lotta alla criminalità organizzata. Le stesse modalità dell’arresto (il bunker, la cintura protettiva dei fedelissimi, l’assenza di cellulari intercettabili, l’ostinata presenza nel «suo» territorio, l’ironia del capo che concede ai poliziotti la palma della vittoria), ci consegnano il profilo di una grande operazione per la presa di un grande capo.
Grande, ma anche l’ultimo di una generazioni di criminali che, in Campania, hanno creato un gruppo nuovo e diverso, lontano dalla «cartolina» del guappo «anema e core» e molto più prossimo alla ferrea disciplina della mafia siciliana tutta tesa soprattutto alla concretezza degli affari. Michele Zagaria rappresenta l’ultimo discendente di una camorra cresciuta all’ombra e alla scuola della «migliore» Cosa nostra, quella della mafia di Ciaculli e di Michele Greco il «papa».
Sono ormai decenni che i giornalisti, gli osservatori più accorti sottolineano la particolare pericolosità dei casalesi, giustamente considerati un qualcosa di diverso, di particolare rispetto alla camorra rinchiusa e concentrata nella gestione dell’illegalità diffusa. No, i casalesi – come la mafia siciliana – hanno sempre dimostrato quella attitudine alla corruzione delle istituzioni e delle coscienze di tanti cittadini, specialità che ha consentito a Cosa nostra di assumere la leadership criminale fino a divenire la più potente del mondo.
Le radici non tradiscono: fu il gran capo Antonio Bardellino, socio fondatore della premiata ditta dei casalesi, a inglobare la «famiglia» dentro il redditizio guscio della mafia palermitana dei Greco, dei Bontade e dei Riccobono. Il piatto da spartire era, allora, il contrabbando delle sigarette. Quando cominciarono a prevalere i corleonesi, i fratelli Zaza e Lorenzo Nuvoletta andarono in quella direzione.
Il business delle bionde produceva lauti guadagni, ma i casalesi guardavano oltre. La «scuola siciliana» li portava ad ambire ai grandi affari. E così a furia di investire e intrecciare fortunate amicizie politiche – come dimostra la vicenda ancora aperta dell’on. Nicola Cosentino – si ritrovano oggi, proprio con Zagaria, dentro la realtà dei ricchi appalti che travalicano i confini del proprio territorio per spingersi verso zone erroneamente ritenute immuni dal contagio mafioso, come l’Emilia o la Lombardia.
Sono davvero sorprendenti le affinità del film visto ieri mattina con la moviola delle precedenti catture. Certo, la latitanza di «capastorta» non è stata lunga come quella di Provenzano o di Riina, ma anche le forze dell’ordine e la magistratura di oggi non sono quelle degli Anni Sessanta e Settanta. E’ difficile non accostare Zagaria ai grandi latitanti, tutti uguali nelle regole e nella disciplina: capaci di stare mesi interi segregati in una stanza che scompare in una botola (un meccanismo simile era nella casa di Giovanni Brusca), limitatissimi nei contatti con l’esterno e con gli estranei, sospettosi nell’uso dei cellulari e della tecnologia (Provenzano non li usava, Zagaria dicono usasse schede internazionali sempre diverse). E poi le immancabili immagini sacre e le foto dei propri cari in una cornice a forma di cuore.
Ma attenzione: finisce, come giustamente fa notare il procuratore Piero Grasso, il mito di un imprendibile, non si chiude la battaglia col mostro. L’animale feroce, anzi, può solo diventare più pericoloso perché il nuovo che avanza, anche nelle consorterie criminali, non promette nulla di buono.
La Stampa 08.12.11