«Siamo stati chiamati per salvare l´Italia, davanti a una crisi gravissima. Insieme ce la faremo». Mario Monti è partito da questo drammatico appello rivolto direttamente ai cittadini per annunciare la manovra da 30 miliardi che il governo ha varato ieri, 17 giorni dopo il suo insediamento. Una manovra pesante per i contribuenti, e tuttavia indispensabile per evitare il default del nostro Paese, che segnerebbe la fine dell´euro e di ogni ambizione politica dell´Europa.
È una vera e propria manovra d´emergenza, dunque, perché l´Italia è chiamata a muoversi a grande velocità su un sentiero molto stretto e difficile. L´esito non è assicurato, nemmeno a prezzo di sacrifici, perché la fuoriuscita dall´eurozona non dipende solo da noi. Ma da noi, e interamente, dipende il recupero di credibilità dell´Italia e la sua possibilità di pesare nelle decisioni che l´Europa dovrà prendere per rispondere alla crisi.
Il governo era atteso a misure strutturali, proprio per queste ragioni. La più strutturale di tutte, quella sulle pensioni, è radicale e costosa per i cittadini, come confermano le lacrime del ministro Fornero, ma probabilmente definitiva per un sistema traballante con sacche di privilegio. Poi la casa, il vero bene-rifugio delle famiglie, che vede il ritorno dell´Ici. Quindi qualche taglio ai costi della politica (sforbiciata alle Province, in vista della loro abolizione) e qualche intervento a sostegno della competitività delle imprese, per la crescita.
Dunque tasse, come sempre, per far fronte all´emergenza. Ma anche qualche spazio per l´equità, con la rinuncia all´aumento dell´Irpef e l´introduzione travagliata di un prelievo dell´uno e mezzo per cento per i capitali scudati già rientrati in Italia: che è un primo abbozzo di patrimoniale e consente di creare le risorse per alzare fino alla soglia di mille euro la fascia protetta delle pensioni che recuperano l´aumento dell´inflazione, escluso per quelle più alte.
C´è dunque il rispetto degli obblighi europei, imposti dalla crisi: ma c´è uno spazio di autonomia nazionale e politica, che fa di Monti il capo di un governo, non il legato di Bruxelles e Francoforte.
La Repubblica 05.12.11
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“Molte tasse poca crescita”, di Massimo Giannini
Le lacrime di Elsa Fornero sono una buona metafora di questo “decreto salva-Italia”. Un´operazione chirurgica di tasse e di tagli senza anestesia, sul corpo vivo della società italiana. Farà piangere alcuni milioni di persone, anche se farà un po´ meno “macelleria sociale” di quanto si temeva. Diciamo la verità. Dal governo dei Professori ci saremmo aspettati qualcosa di più. In termini di qualità e di equità. Non serviva un autorevolissimo tecnico prestato alla politica come Monti, che con i suoi atti ha combattuto in Europa i grandi trust del pianeta e che con i suoi articoli si batte da anni per la modernizzazione del Paese, per varare una manovra che ha comunque un vago sapore di stangata vecchio stile. Non serviva una squadra d´élite per mettere insieme un pacchetto di misure che comprendono la solita infornata di imposte per i contribuenti e la solita carestia di risorse per gli enti locali.
Su questa “cura” grava in parte la stessa ipoteca che aveva pesato sulle ultime due manovre del governo Berlusconi-Tremonti, che tra luglio e agosto avevano razzolato la quasi totalità del gettito sulle tasse, e solo per una quota marginale sulle spese (di cui l´80% sulle riduzioni per ministeri, enti locali e sanità). Ora, il pacchetto di misure varato dal Consiglio dei ministri ripete parzialmente lo schema: su un totale di 30 miliardi “lordi”, 17 sono aumenti d´imposta, 13 sono riduzioni della spesa. Ancora una volta, la necessità di fare cassa fa premio sull´opportunità di ripensare più a fondo la natura e la struttura del bilancio pubblico. È vero che urgeva ed urge una terapia d´urto, e che come dice il premier «il debito pubblico non è colpa dell´Europa, ma è colpa di noi italiani». Ma se è vero quello che la Banca d´Italia ripete da tempo, e cioè che nel prossimo biennio la pressione fiscale viaggia verso il record del 43,7% del Pil e la spesa primaria al netto degli interessi corre verso il 43,3%, allora la manovra resta ancora troppo squilibrata dal lato delle entrate.
Sul fronte fiscale, il “saio” cucito addosso ai contribuenti è pesante. Monti (come del resto Tremonti) aveva promesso il passaggio della tassazione dalle persone alle cose. Nella sua manovra di questa traslazione c´è una traccia ancora insufficiente. Le “cose” vengono ri-tassate. La casa subisce un duplice, gravosissimo colpo: l´introduzione dell´Imu e l´aggiornamento degli estimi catastali. I beni di consumo subiscono un´altra frustata: l´aliquota Iva aumenterà di altri 2 punti nel secondo semestre 2012, dopo il rialzo agostano già decretato dal governo forzaleghista, con un´alea difficile da calcolare sul possibile “propellente” inflazionistico che può generare. In compenso, con una scelta saggia propiziata anche dalla moral suasion dei partiti della “Grosse Koalition” all´italiana, le “persone” vengono tassate un po´ meno del previsto. Il cospicuo ritocco dell´ultima aliquota Irpef, dal 43 al 46%, è stato opportunamente rimosso dal menù. Si è risparmiato così l´ennesimo tributo sul ceto medio, e si è archiviata l´idea, non del tutto realistica, che i “ricchi” in Italia siano quelli che dichiarano più di 75 mila euro l´anno. In realtà questo è anche il bacino sociale del lavoro dipendente che paga le tasse fino all´ultimo centesimo, mentre il lavoro autonomo continua a ripararsi dietro dichiarazioni dei redditi scandalose, che non superano i 25-30 mila euro l´anno. In compenso, salirà l´addizionale Irpef delle regioni.
La manovra di Monti ha recuperato in extremis un barlume di equità. Con la pistola del Cavaliere alla tempia, il premier ha dovuto rinunciare a spostare drasticamente il prelievo, dal reddito al patrimonio. È deludente che un governo tecnico non sia stato in grado di varare un´imposta sulle grandi fortune sul modello francese, e non abbia nemmeno tentato di riequilibrare l´imposizione sulle rendite finanziarie (ferma al 20%) rispetto a quella sul lavoro (ormai a quota 36%). Ed è deludente che abbia rinunciato a tentare un affondo più convinto contro gli “invisibili” del sistema tributario, che ogni anno nascondono al Fisco 120 miliardi di euro: si poteva osare di più, e non limitarsi a reintrodurre la tracciabilità del contante solo dai 1.000 euro, dopo aver annunciato alle Camere l´intenzione di “chiedere di più a chi ha di più” e la volontà di “colpire l´evasione fiscale” per impiegare il maggior gettito per abbattere le imposte sui lavoratori e sulle imprese. Ma in compenso, grazie alle pressioni del Pd, uno sforzo di giustizia sociale è stato fatto grazie alla tassa una tantum dell´1,5% sui capitali rientrati con l´ultimo scudo fiscale di Tremonti. E sulla stessa linea si iscrivono l´estensione dell´imposta di bollo su diverse operazioni finanziarie (e non più solo sui conti correnti bancari), la tassa di stazionamento aggravata sugli yacht e i rincari del bollo sulle auto di lusso. Misure che incidono effettivamente sulle categorie più benestanti, risparmiate in tutti questi anni dai sacrifici. Tuttavia, anche in questo campo si poteva fare di più e di meglio, per rendere socialmente più tollerabile la distribuzione del prelievo.
Nel “decreto salva Italia” c´è comunque un elemento di qualità. Sul fronte della spesa, l´intervento sulle pensioni è serio e strutturale. È giusto correggere le iniquità del sistema dell´anzianità, anomalia tutta italiana nella quale si frantuma una parte del patto tra le generazioni. È giusto superare la disparità del metodo di calcolo (retributivo o contributivo) a seconda che si sia stati assunti prima o dopo il 1978. È giusto equilibrare le aliquote contributive delle categorie autonome che in questi decenni sono state abbondantemente al di sotto della media. È anche giusto, benché doloroso, accelerare l´innalzamento ed equiparare l´età di vecchiaia per uomini e donne, anche se non si può non accompagnare un vero e proprio “scalone” sull´accesso alla pensione femminile con un sistema di Welfare finalmente inclusivo per chi deve coniugare lavoro e cura della famiglia e dei figli. Ma il blocco della rivalutazione degli assegni, sia pure salvando quelli al minimo e fino al limite dei 940 euro al mese, è a tutti gli effetti una “tassa sul pensionato”, che oltre tutto non risparmia i trattamenti compresi tra i 1.000 e i 2.000 euro al mese. Il 48% del totale, e in questa fascia sociale non si tratta certo di “pensioni d´oro”.
Per il resto, sui tagli di spesa non c´è molto altro di veramente “qualificante”. L´abbattimento dei costi della politica è ancora allo stadio iniziale, a dispetto del gesto di buona volontà del premier che rinuncia al suo stipendio. Il colpo di scure sulle Autority e sulle Province, oppure la soppressione dell´Enit o dell´Agenzia per il nucleare, aiutano ma non risolvono. Volendo amputare sul serio la spesa improduttiva e gli enti inutili si sarebbe potuto e si potrebbe affondare la lama molto più in profondità. La stessa cosa si può dire per il pacchetto di misure sulla crescita presentate dal ministro Passera. Le liberalizzazioni si limitano ai farmaci di fascia C nelle parafarmacie, e con una serie dettagliata di vincoli. Il credito d´imposta per la ricerca è troppo basso. La deduzione Irap sui costi del lavoro, a vantaggio delle imprese, è solo un primo passo, ancora troppo timido. Monti, in queste settimane, aveva costruito la sua manovra su una “triade” inscindibile: rigore, equità, crescita. Dei tre assi, per ora ne ha calato davvero uno solo, cioè il primo. Era necessario. Ma se il premier non si affretta a giocare fino in fondo anche gli altri due, la sua partita sarà difficilissima. In Parlamento, e soprattutto nel Paese.
La Repubblica 05.12.11