I giovani hanno pagato il conto più salato della crisi. Lo ha confermato ieri il rapporto annuale del Censis con i dati impietosi di 1 milione di giovani che hanno perso il lavoro negli ultimi quattro anni e quasi un giovane su quattro non studia e non lavora. Come prevedibile la precarietà si è presto trasformata in disoccupazione. Pensare che ci avevano raccontato che i contratti flessibili sarebbero stati un trampolino per accedere al mondo del lavoro e incentivare l’occupazione. Così non è stato e i decisori politici dovrebbero apprendere la lezione, piuttosto che perpetuare un modello insostenibile che penalizza i più deboli e consegna le giovani generazioni ad un futuro che appare loro predestinato, magari in virtù del contesto sociale e familiare di provenienza. La discontinuità del lavoro diventa infatti una barriera enorme nel difficile percorso verso l’indipendenza economica e la famiglia rimane l’unico ammortizzatore sociale disponibile. Basti pensare che una buona parte dei precari che ha perso il lavoro non ha ricevuto alcun sostegno al reddito e il misero bonus precari, istituito dal precedente Governo, è stato usufruito a malapena da 1500 collaboratori, in virtù dei requisiti restrittivi che lo hanno reso inaccessibile. D’altronde tutti ci ricordano quanto è importante scommettere sui giovani, ma puntualmente nessuno vuole rischiare per dare loro un’opportunità: non rischia il datore di lavoro che preferisce assumerti a progetto, non rischia un banca nel concederti un mutuo, non rischia lo Stato con un welfare sempre più avaro ed escludente. Come se il rischio di un mercato impazzito debba essere assunto esattamente da chi ha meno potere e meno responsabilità. La parola equità che ultimamente viene tanto agitata dovrebbe partire da qui: da una giusta redistribuzione delle opportunità e delle responsabilità. La precarietà è l’emblema di questo modello: infatti produce sfruttamento e subalternità e lede innanzitutto la libertà nell’esercizio del proprio lavoro. La nostra d’altronde è la generazione che deve essere “disposta a tutto” pur di lavorare: disposta a lavorare gratis o con compensi indecenti, a orari impossibili, in assenza di tutele in caso di malattia o maternità, senza diritti sindacali, con la massima responsabilità sull’esito di un incarico e il minimo della tutele e dell’autonomia nella gestione dello stesso. Per questo i diritti sul lavoro non sono un termine desueto, ma sono l’unica garanzia per esprimere al meglio la propria autonomia e professionalità. Non esiste alcun risarcimento economico che possa sostituire il diritto ad essere pieni cittadini sul posto di lavoro, senza i ricatti e le umiliazioni a cui spesso siamo sottoposti. Questo proprio i giovani lo sanno bene e per questo non sono più disposti ad essere strumentalizzati ai fini di uno scambio che veda sottrarre, nuovamente a loro, i diritti conquistati dalle precedenti generazioni. Infatti risulta quantomeno surreale la raffigurazione di un “mercato del lavoro duale”, dove magari gli ipergarantiti sono i nostri genitori in cassa integrazione o i tanti che guadagnano poco più di 1000 euro al mese. Piuttosto i giovani sono stati le cavie di un “mercato del lavoro liquido” dove si sono affermate condizioni sempre più frammentate: mentre le protezioni venivano negate a chi doveva entrare, progressivamente si assottigliavano per tutti, secondo una logica di rincorsa alla riduzione dei costi e di spostamento del rischio di impresa sul lavoratore. Per riformare il sistema non esiste una soluzione salvifica, ma alcuni interventi mirati che invertano la rotta. I giovani devono poter accedere al lavoro con un contratto vero, che abbia pieni diritti, formazione e tempi certi di conferma. Devono essere cancellati i contratti truffa e ridotte le tipologie disponibili, secondo il principio per cui ad un lavoro stabile deve corrispondere un contratto stabile. Inoltre nessuna prestazione, a prescindere dalla tipologia di impiego, può esser pagata meno di quanto stabilito nei contratti nazionali di lavoro e vanno garantite a tutti le tutele fondamentali, a partire dall’estensione degli ammortizzatori sociali. Queste sono soluzioni concrete e urgenti che possono dare un segno di discontinuità. Questo è il punto: se questo Paese sceglie o meno di liberare le energie e le competenze compresse, di ridurre le disuguaglianze e le rendite di posizione, di perseguire uno sviluppo che consenta alle nuove generazioni di restituire il frutto di anni di studio e di lavoro.
Ilaria Lani
Pubblicato il 3 Dicembre 2011