Brutti tempi per la politica. È stata — si dice — messa all’angolo, sospesa, espropriata. Certo, le procedure scritte e non scritte della democrazia sono fuori discussione, tutto passerà per il Parlamento, se il governo Monti non ha avuto la partenza bruciante che molti si aspettavano è anche e forse soprattutto perché del consenso delle forze politiche non può ovviamente fare a meno. Ma resta il fatto che, nell’ora più grave, è ai primi della classe che si fa appello e se sembrano un po’ secchioni è pure meglio. L’assenza di legittimazione popolare è rappresentata, in una parte vasta dell’opinione pubblica, come un potenziale punto di forza, non di debolezza: non sono chiamati a sedurre gli elettori ma a decidere al meglio come farci fare i pesanti compiti a casa che ci vengono richiesti, non perdano tempo.
Inutile girarci intorno. Spesso queste preoccupazioni sono strumentali, però c’è del vero. E in ogni caso non basta a renderle palesemente infondate la constatazione che la politica non è stata sospesa da qualche complotto interno e internazionale, ma in Italia (e forse non solo in Italia) ha provveduto in primissima persona ad autosospendersi, certificando sul campo la propria incapacità.
Il 12 novembre non è caduto soltanto Silvio Berlusconi, è finita una stagione lunga quasi vent’anni. Forse non oggi, ma di sicuro quando si proverà a farne un bilancio equanime, cercando anche di stabilire quale Italia ci ha lasciato in eredità, si comincerà con il riconoscere che, dal 1994, la politica e il Paese si sono divisi (drasticamente, e a tratti ferocemente) attorno a un dilemma elementare: Berlusconi sì, Berlusconi no.
E si proseguirà prendendo atto che, se Berlusconi non solo ha incardinato attorno alla sua figura tutto o quasi il discorso pubblico, ma è stato così a lungo l’unico leader capace di incarnare una «vocazione maggioritaria» di cui altri hanno solo parlato, qualche motivo ci sarà pure stato. Uno, probabilmente, su tutti. Di un tempo contrassegnato dal declino (o peggio) dei partiti, e da un’estrema personalizzazione e (orrendo neologismo) leaderizzazione della politica, Berlusconi il Grande Comunicatore è stato, nel bene e nel male, un protagonista vero. La sua «narrazione» (direbbe Vendola) dell’Italia e degli italiani è risultata, agli occhi della maggioranza degli italiani medesimi, la più convincente, se non proprio l’unica possibile; e i suoi avversari, che di «narrazioni» alternative non disponevano e giocavano in sostanza di rimessa, hanno a lungo confermato (involontariamente, si capisce) questo giudizio.
Quando e perché il protagonismo berlusconiano ha cominciato a perdere colpi è materia complessa, e controversa. Di sicuro c’è solo che a un certo punto (diciamo, per comodità, dalla cacciata di Gianfranco Fini e dal venir meno della maggioranza del 2008) Berlusconi è parso intento soprattutto a cercare di sopravvivere politicamente a se stesso. La sua «narrazione», già incomprensibile per tanta parte degli europei, si è come spezzata, cominciando a sembrare una litania stanca, vuota, a tratti persino irritante anche a molti sostenitori del centrodestra. Nel pieno della tempesta economica e finanziaria, il Grande Comunicatore ha smesso di comunicare.
E una politica (di maggioranza e di opposizione) tutta imperniata su di lui è risultata impotente. Incapace di governare in prima persona. Impossibilitata a restituire (come in un altro contesto sarebbe stato scontato) la parola al popolo. Costretta a chiedersi in quali condizioni e con quali schieramenti si ritroverà quando a votare comunque torneremo.
Il berlusconismo è stato e resta, naturalmente, un fenomeno italiano (verrebbe da dire: italianissimo). Ma è stato pure una variante nazionale di un fenomeno più generale che ha segnato gli ultimi vent’anni del secolo scorso e i primi dieci di questo: una specie di via italiana al leaderismo spinto, mezzo arrogante e mezzo piacione. Forse, seppure in forme diverse, declinano (o qualcosa di più e di peggio) insieme. Il tempo dei Grandi Comunicatori, se non si è già esaurito, si sta esaurendo in fretta; le «grandi narrazioni», decisive per vincere o stravincere le campagne elettorali (qui, più che a Vendola, viene da pensare a Obama) valgono quello che valgono quando si tratta di governare in tempi calamitosi.
E nuovi leader capaci di seminare speranza e di accedere i cuori all’orizzonte non se ne vedono. Anzi. Un seduttore di rango, quale sicuramente è stato Zapatero, ha dovuto cedere il passo a un avversario, Rajoy, considerato eccessivamente, pericolosamente grigio da gran parte degli stessi popolari spagnoli. A parti rovesciate, un identico destino potrebbe capitare a Sarkozy con il sin troppo «normale» Hollande. Non c’è da trarne leggi universali; ma di sicuro il caso di Berlusconi non è isolato. Forse non è vero che la politica sta morendo, magari sta solo cercando di cambiare registro. Peccato che in Italia le riesca ancora più difficile che altrove.
Il Corriere della Sera 28.11.11