Economia & istruzione: un rapporto non facile da decifrare, che sta però nel programma del «governo dei professori». Sono assai impegnativi i due punti in proposito (sui 39) che abbiamo sottoscritto con Trichet-Draghi: valutare le scuole e ristrutturare quelle «pessime»; valutare i docenti e «premiare» quelli migliori. Sembra un proclama che annuncia un conflitto insanabile tra le ragioni dell’educazione e quelle del mercato. Ma forse non è così scontato. Vediamo perché. È vero, gli economisti dell’istruzione sono inguaribili ottimisti e mettono in relazione un più elevato livello di istruzione della popolazione con la ricchezza di un Paese e con migliori opportunità per le persone. Lavoro, salute, cittadinanza, dunque democrazia… sono connessi con una buona formazione. Anche il nuovo Governatore della Banca di Italia, Ignazio Visco, si iscrive con i suoi interventi di ieri, tra i fautori di una decisa sterzata a favore dei giovani, di una loro migliore istruzione, di un loro ingresso più «alto» nella società degli adulti. Va riconosciuto che il «mitico» ufficio studi di Via Nazionale da un po’ di anni insiste sulla questione ed ha pure espresso un apprezzato presidente – Piero Cipollone – dell’Invalsi, l’istituto di valutazione del sistema educativo italiano, spesso al centro di aspre contese con i docenti. Il fatto è che da troppo tempo ormai la scuola (in generale, l’istruzione, la ricerca, la cultura) è oggetto di politiche restrittive, con un peso decrescente nella ricchezza nazionale. Solo il 4,8 % del Pil si muove verso l’education (rispetto al 6,1% dell’Ocse). L’Italia è un Paese poco generoso con i giovani, la sua scuola, l’idea stessa che la formazione sia un investimento piuttosto che una spesa «a perdere». I cattivi risultati si spiegano, come pure gli alti livelli di dispersione (un ragazzo su cinque viene tagliato fuori dall’istruzione). Ma la scuola che fa per non perderli? Tagli, indignazione, de-motivazione, rinuncia, sfiducia: questo è il circolo vizioso che sembra paralizzare la nostra scuola ed il suo tormentato rapporto con i decisori politici, con la società civile, finanche con gli studenti ed i genitori… Ma non basta. È urgente «pensare» diversamente alle nostre strutture formative, immaginare una scuola più a misura di ragazze e ragazzi (senza indulgere nel giovanilismo!), che possa essere vissuta anche dagli insegnanti come occasione di crescita, di riscatto, di rinnovata credibilità. Di qui occorre ripartire per riforme coraggiose, anche in una stagione dove le risorse pubbliche saranno limitate, e andando oltre i facili slogan. L’impressione è che gli adulti siano preoccupati soprattutto di difendere le loro posizioni (si vedano i millimetrici spostamenti delle cattedre in una scuola superiore immobile da decenni, che fa resistenza anche ai semplici restyling), quando invece sono in gioco domande più radicali: a) devono ancora esistere le classi, le cattedre, gli orari, le materie, i compiti in classe, così come li tramandiamo orami da (troppi) decenni?; b) hanno senso curricoli didattici talmente «ingessati» da non lasciare neanche un briciolo di scelta ai ragazzi, poche possibilità di decidere (almeno) una parte delle cose da fare, delle «materie» di cui innamorarsi, a cui dedicare tempo ed energia?; c) possibile che le nostre scuole siano ancora centrate su atrii anonimi, su corridoi simil-carceri, su aule sempre più grigie, più spoglie, a volte più sporche, quando ben sappiamo che ambienti di apprendimento, belli, vivibili, conviviali, sono uno stimolo allo studio, alla creatività? Se pensiamo ai giovani, alla loro voglia di mettersi alla prova, di sperimentare nuove forme di autonomia culturale, geografica, professionale, non ha molto senso confermare la sequenza: maturità a 19 anni, università lunga (con il ritmo triennio + biennio + master), impietosa ricerca di una posizione precaria «qualunque». Forse a un 18enne italiano dobbiamo offrire qualcosa di più affascinante di un anno dietro i banchi a seguire rassicuranti lezioni frontali. La proposta più sensata sarebbe regalargli un biglietto chilometrico, per proiettarlo nelle capitali europee, nei quartieri start-up ove si inventano nuove imprese, dove si immagina un futuro creativo e solidale, per una generazione che ha fame di «futuro». Dovremo forse ridimensionare questa «vision» e accontentarci – magari! – di una riforma della scuola che preveda comunque percorsi più intensi e flessibili: a 18 anni si dovrebbe andare all’Università (accompagnati dai propri proff. migliori), scegliere un percorso specialistico, entrare curiosi nel mondo delle imprese e dei servizi, intrecciare lo studio con vita e lavoro (come i giovani amano fare). È una scuola più friendly, quella di cui abbiamo bisogno? No di certo, ma nemmeno solo di quella che si misura con i test di apprendimento dell’Invalsi (forse troppo magnificati nella lettera all’Europa e nel programma di governo). Sappiamo che il nostro sistema educativo ha degli evidenti limiti, visibili anche nei confronti internazionali (ma il nostro «spread» negli apprendimenti misurati dai punti Ocse-Pisa è assai inferiore a quello dei titoli di stato e certe regioni italiane vanno alla grande). Qui ha ragione Ignazio Visco: un buon sistema di valutazione deve andare a caccia di buone scuole, scoprire i fattori di qualità, stanare pigrizie e zone d’ombre, proporre modelli virtuosi, di scuole, territori, professionalità che già esibiscono indicatori comparabili con quelli di eccellenza. Non si valuta per penalizzare, per fare graduatorie, per distribuire premi (qui stanno alcuni limiti delle contrastate sperimentazioni Gelmini sul merito), ma per conoscere, capire, introdurre elementi di dinamismo nelle scuole, tra i docenti, con i dirigenti scolastici. È necessario valutare, per non perire, come afferma Norberto Bottani. Ben sapendo che le scuole, le Università, gli istituti di ricerca – come certo ha sperimentato il nuovo Ministro «rettore» – sono imprese collaborative, dove vince chi gioca di squadra, chi crea «valore aggiunto», chi costruisce comunità professionali proiettate verso l’innovazione, dove la convivialità e non la competizione promuove l’eccellenza (quella che non dimenticando l’inclusione).
*direttore della Rivista dell’istruzione
L’Unità 27.11.11