“Non facciamo gli indovini”. Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco misura le parole sulla durata della crisi e sulle turbolenze dei mercati. Anzi, preferirebbe proprio non pronunciarle. Vorrebbe parlare solo di quello che ormai da tempo lo appassiona: il capitale umano e l’economia della conoscenza. La sua prima uscita pubblica da governatore – in un convegno dell’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia – l’ha dedicata a questo, quasi a sottolineare quanto il fattore umano conti anche nel mezzo della «tempesta perfetta della finanza». Ma lo scenario impone altri temi, urgono risposte. «Non c’è unaricetta per uscire dalla crisi – avverte – bisogna solo lavorare molto, ascoltare e riflettere. Ascoltare i giovani, che sbagliano quando chiedono di uscire dall’euro (sarebbe un disastro), ma hanno istanze corrette.
Nel suo studio al piano nobile di Palazzo Koch, Visco resta abbottonatissimo sui prossimi impegni del governo italiano («aspettiamo») e, riflettendo sul futuro dei giovani, lancia un invito ai più vecchi: «Federico Caffè diceva sempre: bisogna avere il coraggio di riformare, non quello di difendere posizioni preesistenti». La fotografia che Visco scatta sul sistema dell’istruzione è tristemente nota agli addetti ai lavori: abbiamo meno laureati (e spesso meno preparati) dei nostri partner occidentali, e paradossalmente i laureati guadagnano meno dei loro colleghi degli altri Paesi e poco di più dei diplomati. Insomma, studiare «non conviene». Tra le cause ce n’è una che ha a che fare con la flessibilità: «Questa può aver indotto le imprese, specie quelle meno efficienti, a rinviare investimenti in ricerca e l’adozione di tecnologie avanzate». Flessibilità del lavoro, poca innovazione, nessun bisogno di nuove conoscenze.
Questo ha prodotto la flessibilità?
«Aspetti, aspetti, ho detto anche altre due cose. La qualità dell’investimento in istruzione può non essere buona, le imprese non riescono a distinguere tra bravi e meno bravi e tendono a pagare poco. Insomma, non ci sono interpretazioni univoche: c’è uninsieme di fattori. Tra questi la struttura produttiva, la qualità della formazione e il modoin cui alcuni interventi sul mercato del lavoro, molto utili per ridurre la disoccupazione, sono stati utilizzati dalle imprese meno innovative».
Ma così si smentisce la vulgata secondo cui la flessibilità servirebbe a premiare il merito.
«No, assolutamente, bisogna capire come si organizza questa flessibilità».
Qui arriviamo al cosiddetto mercato duale. Perché si chiede di togliere tutele: lei non vorrebbe tutti tutelati?
«Io voglio tutelare i lavoratori, non il posto di lavoro fino alla fine, altrimenti non si riesce a cambiare. Oggi non è più possibile fare un solo lavoro per tutta la vita. Il mondo cambia, le tecnologie cambiano, i giovani oggi dovranno prepararsi a fare diversi lavori, per la mia generazione non è stato così. Allora bisogna pensare a una flessibilità in grado di proteggerli, anziché colpirli. Quello che è successo finora abbiamo capito che li ha più colpiti che protetti. Va ripensato il modo in cui i ragazzi entrano nelle imprese, e contemporaneamente per quelli che sono dentro, gli insider, serve trovare nuovi ruoli, aggiornarli. Nonserve a nessuno utilizzare lavoratori anziani, pagati tanto grazie alla loro forza contrattuale, a fare cose vecchie, come spingere sempre lo stesso bottone, e poi magari mandarli via per prendere un giovane stagista – che costa meno – e costringerlo a spingere lo stesso bottone. La disoccupazione spesso è causata non dalla globalizzazione, ma dalla tecnologia che è cambiata. Allora, bisogna innovare per includere tutti. Ma questo costa molto. Bisogna affrontare una transizione difficile, e trovare dei meccanismi di tutela, non con risorse pubbliche che non ci sono, ma con istituti mutualistici (com’era la Cassa integrazione guadagni quando è nata), come ad esempio hanno fatto in Germania».
Tornando all’istruzione, a lei piace la riforma Gelmini?
«Non sono un esperto di riforme, ma sostengo che negli ultimi anni si è andati nella direzione necessaria. L’Invalsi può servire: più che protestare contro i test, proviamo a fare e a rielaborare i test, così le cose migliorano. Lo stesso vale per gli indicatori: certo, vanno letti con intelligenza. Se si usano per aiutare (non punire) le scuole che nonfunzionano, vanno bene. Oltre tutto si può notare che alcune scuole vanno bene e altre vanno male: allora bisogna studiare quelle migliori. Aggiungo però che questo tipo di riforme va accompagnato dai
fatti: dove sono i concorsi per le scuole? Dove sono i concorsi per le università? Ci vogliono investimenti, servono risorse. Quanto all’università, sono favorevole all’autonomia gestionale: bisogna capire che anche l’istruzione è un’impresa. Non mi piace che chi entra nell’università come ricercatore, lo rimanga a vita anche se smette di lavorare.Non mi piace che chi fa il docente spende il 99% del suo tempo a fare la professione libera». Questo non piace a nessuno. Magari bisognerebbe controllarlo. «Allora gli interventi servono. Sicuramente oltre a buone scuole ci sono anche molti studenti preparati. È importante capire dove il sistema funziona meglio». Di fronte a questa crisi finanziaria che
sembralontanadallagentecomune,alla fine l’istruzione conterà?
«Moltissimo, perché è una crisi che produrrà un cambiamento dei modi di produrre. E bisogna che siano i giovani quelli che dirigono l’uscita».
L’Unità 26.11.11