Messa in archivio l´italietta di Berlusconi, l´Italia di Mario Monti e Mario Draghi può rivelarsi quasi tedesca come la tedeschissima signora Merkel. Con grande sollievo di quest´ultima. Se ne è accorto ieri il presidente francese Sarkozy che, di fronte al doppio no di Merkel e Monti, ha dovuto rinunciare all´idea di modificare la natura e la missione della Bce per far diventare la Banca centrale europea prestatore di ultima istanza, e dunque garante dei debiti accumulati dai Paesi della zona euro.Una tesi che trova contrarissimo il nuovo presidente dell´Istituto di Francoforte, Mario Draghi, ma che era diventata invece il cavallo di battaglia degli ultimi giorni di Berlusconi.
Chi si attendeva dal vertice franco-tedesco-italiano di Strasburgo la ricetta miracolo per salvare l´Europa dalla crisi dei debiti sovrani è certamente rimasto deluso. La Cancelliera non si è spostata di un millimetro dalla serie di veti, primo fra tutti quello sugli eurobond, con cui negli ultimi due anni ha lasciato che l´infezione della piccola Grecia mandasse in cancrena tutta l´Unione monetaria. Ma sarebbe sbagliato pensare che a Strasburgo non sia successo nulla, al di là del plateale ritorno dell´Italia sulla scena europea, con un capo del governo italiano accolto da espressioni di stima, fiducia e rispetto di cui avevamo perso la memoria nella lunga notte berlusconiana, tanto da convincerci, quasi, di non averne mai avuto diritto.
L´inserimento di Mario Monti nel “ménage” franco-tedesco, ha in effetti modificato la dinamica del processo decisionale europeo.
È bastato che il premier italiano si schierasse a fianco della Merkel sulla questione della Bce per porre fine ad un braccio di ferro tra Parigi e Berlino che paralizzava da mesi il duopolio renano. È bastato che l´Italia si dicesse pronta a condividere la necessità di modificare i Trattati al fine di creare una «unione di bilancio» europea, per consentire a Sarkozy di aggirare il veto britannico minacciando di arrivare al governo economico attraverso accordi intergovernativi. È bastato che Monti ricordasse, in termini anche duramente critici verso Francia e Germania, l´importanza del metodo comunitario per dissipare le ombre e i sospetti che un direttorio a tre si voglia sostituire al duopolio franco-tedesco. Ma è bastato anche che la Merkel ricordasse come, insieme, Germania, Francia e Italia rappresentano più del settanta per cento dell´economia dell´eurozona per far capire, in primo luogo ai mercati, quanto un´intesa tra i tre grandi debba essere presa sul serio.
A vederli davanti ai microfoni nella prefettura di Strasburgo, così diversi ma così consapevoli della gravità del momento e della responsabilità che loro incombe, si può forse sperare che l´era della grande sfiducia europea stia finalmente volgendo al termine.
Lo stesso duopolio franco-tedesco era governato da una profonda diffidenza reciproca. Francia e Germania erano tenute insieme dalla consapevolezza di avere interessi spesso divergenti e di essere in grado di neutralizzarsi a vicenda sul piano decisionale comunitario. Ogni accordo tra loro era, in definitiva, il risultato di una complessa operazione di sottrazione di tutti i motivi di dissenso e di diffidenza reciproci. Non stupisce che in due anni di esercizio abbiano prodotto una leadership così opaca.
Si può sperare che l´ingresso dell´Italia in questa dialettica bloccata non serva ad aggiungere altri veti, ma a tagliare alcuni nodi e a scioglierne altri. Il primo risultato è la fine del pressing francese sulla Bce, cui corrisponde una promessa di non ingerenza dei governi nella gestione della Banca centrale europea. Il che forse consentirà a Mario Draghi di allungare i termini del finanziamento di liquidità al sistema bancario senza incorrere nei fulmini tedeschi. Sarebbe già un passo avanti di rilievo.
Il secondo risultato è che, forse, da ieri Angela Merkel si sente un po´ meno assediata. Non è detto che basti per convincere la Cancelliera ad abbandonare la politica del «nein!». Ma la comparsa di Monti (e di Draghi) sulla scena europea potrebbe aiutarla a capire che questa crisi non è un gioco a somma zero, in cui tutto ciò che fa bene all´Europa deve, necessariamente, fare male alla Germania. E questa sarebbe, a dir poco, una rivoluzione.
La Repubblica 25.11.11