Le foto di vita quotidiana che La Stampa pubblica oggi in chiusura delle feste per i 150 anni del Paese, raccolte da Banca Intesa San Paolo, testimoniano, con l’obiettivo di artisti, che non siamo quella comunità isterica, arcigna, petulante che sembriamo su giornali, talk show, twitter e blog. Gli italiani, ciascuno con le sue convinzioni personali, politiche, religiose, non vivono in guerra civile e condividono voglia di crescere, cura per la famiglia, amore per l’onestà, disprezzo per la corruzione.
Se il nuovo governo guidato da Mario Monti, con il ministro Passera allo sviluppo, la Fornero al Welfare e il tandem Ornaghi-Profumo a Cultura e Istruzione, saprà parlare al meglio che ogni italiano sente dentro di sé, non al peggio come troppi han fatto fin qui, c’è speranza di ripresa nazionale.
Le immagini che vedete vengono dalle nostre antiche città, come pure dal paese che spera nel futuro europeo e globale. Senza viva, senza abbasso, insieme ragionando e lavorando, come auspica nel suo messaggio il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che per questo clima ha lavorato, con sagacia politica e istituzionale.
ora? Ora la prima cosa da dire al nuovo governo è di guardarsi, con vera diffidenza, dalla malinconica melassa degli elogi. I sicofanti più lesti a trovare paragoni storici esaltati, a elogiare curricula, abbigliamenti, eloqui, saranno i primi, se scontentati, a tornare alla calunnia. Affermare da ministri «Noi non parliamo con i giornalisti» non indica rigore, ma imbarazzo. I sicari dei media vanno ignorati certo, ma ai colleghi professionali e perbene, che sono tanti, vanno assicurati dialogo e confronto in trasparente serietà, accettandone le critiche non volgari con rispetto. Non è solo il dettato costituzionale a sancirlo, è interesse stesso del governo, perché senza dibattito la democrazia langue.
Se l’opinione pubblica italiana, la gente di queste foto per capirci, si illude che basti cambiare l’allenatore Italia, via Berlusconi dentro Monti, per vincere il campionato Euro 2012, finisce male. Bisognerebbe distribuire un grafico dell’Ocse, curato da Thomson Reuters Datastream, con l’andamento della crescita italiana dal 1960 a oggi, dall’anno in cui organizzammo a Roma le prime Olimpiadi in diretta tv al 2011 che ci vede bocciati in tecnologia. La nostra capacità di produrre ricchezza è un ottovolante mozzafiato: abbiamo toccato quota 10% a metà degli anni ‘60 e a metà dei ‘70, quando il Made in Italy era la Cina di oggi. Siamo precipitati a -4 nel 1976, a -2 a metà ‘90 fino al tragico -7 del 2009. Il 1981, quando Bearzot preparava la Nazionale mondiale, è l’ultimo anno in cui abbiamo lambito il 5% di crescita. Siamo fermi da un decennio e per recuperare la caduta 2009 servirà, a questi ritmi, un altro decennio.
Immaginiamo lo scenario migliore: Mario Draghi riesce, secondo l’auspicio di Daniel Gros nell’intervista a Tonia Mastrobuoni, a trasformare l’European Financial Stability Facility in àncora di sicurezza, senza snaturare la Banca centrale e senza che i tedeschi accusino la Merkel di colpo di Stato. Monti completa la potatura della spesa sognata da Padoa Schioppa, razionalizza le pensioni, stana gli evasori fiscali, reintroduce una tassa immobiliare come in Europa e in America, lima i costi della politica (non ceda qui però alla demagogia corrente, presidente Monti, l’esempio va dato e gli eccessi crassi cancellati, ma non è lasciando due auto blu in garage che l’Italia riparte: illudere la gente porta poi a contraccolpi risentiti), e magari riforma il mercato del lavoro, con Bersani a mediare nel Partito democratico tra liberali di Ichino e socialisti di Fassina. Bene, se e quando questo lavoro erculeo andasse in porto, saremmo a zero se nel frattempo dal ministro Passera non venissero segnali confortanti sulla crescita. Non dico un 10% acuto come quando Mina debuttava alla Bussola, ma almeno come il gruppo di testa europeo.
Perché razionalizzare il welfare e innovare l’economia non sarà a costo zero. Tanti cittadini si opporranno, perché non tutti saranno premiati dalla meritocrazia, non tutti promossi dalle riforme, e perché tanti, non solo i mandarini affaristi, vivono, pur a malincuore, di clientele, raccomandazioni, economia protetta, nera o corporativa. A chi lo accusa di favorire i poteri forti, Monti ricorda i duelli di Bruxelles con i titani dell’industria Gates e Welch. A chi lo accusa di non poter vincere lo status quo, Passera ricorda il lavoro fatto alle Poste. Vero, ma stavolta servirà di più.
Servirà convincere gli italiani di buona volontà – e sono la maggioranza – che un patto di rigore e crescita equa è il solo modo perché la nostra generazione, i nati negli anni del boom 1946-1964, non sia la prima, nei 150 anni che festeggiamo, a lasciare in eredità, nella staffetta tra genitori e figli, un Paese peggiore, povero, cupo, isolato dal mondo.
Il governo di Mario Monti ha cento giorni di luna di miele. Il partito dello status quo presto tornerà a farsi sentire (e, paradossalmente, il contributo di Gianni Letta e Giuliano Amato, esclusi in nome del «no» al passato, potrebbe essere rimpianto quando l’innovazione dovrà cercarsi i voti in questo Parlamento) e occorrerà rintuzzarlo. Se il «Partito del futuro», ciascuno nel suo ambito, politico, economico, tra i media, nella classe dirigente e nel Paese, comunicherà che cambiare per crescere è vitale, allora le forze populiste, trincerate nel rancore, saranno sconfitte. E la politica, Casini, Fini, Alfano, Bersani, la Lega di Maroni, Tremonti, Renzi e Vendola, potrà – se ne è capace – immaginare i partiti per la transizione alla III Repubblica italiana: Germania, Inghilterra, e anche Francia, provano che bipolarismo non significa spazio esclusivo per due formazioni politiche. Potremmo forse allora sperare che i nostri migliori 150 anni stiano cominciando adesso.
La Stampa 20.11.11