Dalla Russia all’Africa tutti gli errori della politica estera di Silvio. In due articoli pubblicati su Affari Internazionali nel giugno scorso, gli ambasciatori Antonio Puri Purini e Silvio Fagiolo si soffermano sulla regressione della politica estera italiana nell’ultimo decennio (2001-2011). «Lungo è il lessico del degrado», scrive Fagiolo per descrivere i fallimenti di un paese che è «declinato illudendosi di salire».
«Dopo le elezioni politiche del 2001, la nuova maggioranza ha voluto marcare una discontinuità rispetto al passato», osserva Puri Purini, secondo cui quello «fu l’inizio di una sequenza di errori alla base di cui vi erano inesperienza, indifferenza, presunzione, fastidio per le regole europee».
Perché la politica estera nell’era Berlusconi è arrivata al punto di rottura? In una congiuntura caratterizzata dallo strapotere dei mercati finanziari, una politica estera coerente è elemento chiave per la credibilità politica di un paese. L’incerta collocazione internazionale dell’Italia e il disorientamento regnante alla Farnesina e a Palazzo Chigi, poi, hanno aggravato la fragilità della nostra economia.
È possibile un “new deal” della politica estera italiana? Al centro dell’azione diplomatica non può che esserci l’uomo e le sue capacità di cambiare il mondo in cui viviamo attraverso il merito, l’expertise, le idee. La “diplomazia del capitale umano” si propone di tutelare creatività e innovazione, risorse che il nostro paese non sfrutta a dovere.
A dieci anni dal 2001 è tempo di bilanci e di proposte per la diplomazia che verrà.
Riscoprire l’Europa
Il distacco dalla linea tradizionale di politica estera operato dal secondo governo Berlusconi ha trasformato la visione europea dell’Italia. La capacità dell’Italia di esercitare influenza nelle sedi istituzionali dell’Unione Europea si è fortemente ridimensionata, anche per il flop della presidenza del Consiglio Ue (secondo semestre 2003) e per il supporto dato alla guerra in Iraq.
Il personalismo di Berlusconi ha immobilizzato le istituzioni. L’amicizia con Vladimir Putin e la special relationship con George W. Bush hanno allontanato l’Italia dall’Europa. I pessimi rapporti con la cancelliera tedesca Angela Merkel hanno impedito un riavvicinamento all’asse franco-tedesco, diventato isolamento col deteriorarsi dei rapporti con la Francia di Nicolas Sarkozy.
Da fondatrice delle Comunità europee e culla del federalismo, l’Italia è diventata il ventre molle di un continente in crisi di identità, come dimostrato dalla guerra in Libia e dalla crisi finanziaria. Nel primo caso, l’Italia ha osservato passivamente l’interventismo franco-britannico in un’area del Maghreb di interesse strategico nazionale e crocevia per il futuro della politica estera e di sicurezza europea. La crisi ha prodotto conseguenze ancora più imbarazzanti, basti pensare alle risatine di Merkel e Sarkozy al vertice di Bruxelles o all’ultimatum imposto dall’Unione europea per la realizzazione di urgenti riforme attese da anni.
Nel linguaggio politico l’Europa è diventata un problema, più che una risorsa. Ma l’Italia può sopravvivere ai cambiamenti geopolitici e finanziari solo se si costituisce un’Europa politica. Si deve promuovere il dibattito interno e investire su una migliore comunicazione ai cittadini delle potenzialità dell’Europa unita. Occorre favorire l’inserimento di candidati qualificati all’interno delle istituzioni, a cominciare dal parlamento europeo, e promuovere il rafforzamento delle agenzie Ue nei settori di interesse strategico per l’Italia.
La primavera del Mediterraneo
La svolta filo-israeliana del governo ha influito sulle relazioni con i paesi arabi, soprattutto in considerazione della linea dura di Netanyahu verso la questione palestinese. In generale, la politica mediterranea dell’Italia si è fatta notare per la sua assenza. Si possono citare l’inazione riguardo alla proposta francese di creazione di un’Unione del Mediterraneo; la quasi totale assenza di dibattito sulle conseguenze di mediolungo termine della primavera araba nei paesi interessati da un cambio di regime (Tunisia ed Egitto) o da violente repressioni (Libia e Siria); la marginalizzazione nella gestione della crisi libica a dispetto dei legami culturali, storici e geografici.
Particolarmente complesso il problema dell’immigrazione clandestina: è risultata palese l’incapacità di far fronte all’arrivo in massa dei profughi nell’isola di Lampedusa, conseguenza delle rivolte in Nord Africa, soprattutto a livello di diplomazia multilaterale – leggi mancato rafforzamento dell’agenzia europea per il controllo delle frontiere.
È necessario cominciare a investire su ricerca e formazione. L’Italia deve riaffermarsi come hub economico e culturale del Mediterraneo e sostenere i processi di transizione nel mondo arabo. Deve essere un paese attrattivo per le nuove generazioni tunisine, egiziane e marocchine tramite incentivi e borse di studio (il modello “Master and back”). Intensificare i legami culturali con la sponda sud del Mediterraneo è una priorità.
La cultura crea sinergie, che a loro volta aumentano le possibilità di dialogare e commerciare con paesi strategici per la nostra economia e sicurezza. Il Mezzogiorno può fare da ponte fra l’Europa e il Nord Africa e diventare il fulcro di questa azione.
Una strategia energetica
In un paese nel quale l’unica risorsa strategica è la posizione geografica, l’assenza di un piano energetico nazionale è un serio motivo di preoccupazione. L’Italia importa più del novanta per cento del suo fabbisogno energetico dall’estero in forma di combustibili fossili, e nel 2025 importerà la quasi totalità delle fonti primarie di energia qualora non venissero intraprese riforme strutturali. Inoltre, non è stata ancora identificata una strategia alternativa per sopperire al 25 per cento del fabbisogno che doveva provenire dalle centrali nucleari.
Negli ultimi anni i paesi Ocse hanno intrapreso grandi trasformazioni volte al progressivo abbandono delle fonti tradizionali, quali carbone, petrolio e nucleare. L’Ue ha presentato una nuova strategia per la sicurezza energetica che integra gli obbiettivi di riduzione della dipendenza dagli approvvigionamenti dall’estero e di abbattimento delle emissioni di gas serra.
Nonostante l’introduzione della “Strategia Energetica Nazionale” (2009) come strumento legislativo preferenziale, il governo italiano si è lanciato in opere d’improvvisazione legislativa, risultate – nei casi migliori – in maldestre applicazioni delle Direttive europee (come per la liberalizzazione del mercato elettrico).
L’Italia deve passare da importatore a esportatore di energia e diminuire il livello di dipendenza energetica. È necessaria l’elaborazione di una nuova strategia che faccia delle fonti di energia rinnovabile lo strumento principale di approvvigionamento. Allo stesso tempo deve essere garantita una maggiore presenza della diplomazia italiana nelle strategie di cooperazione energetica europee, in particolare in Asia Centrale e nel Mediterraneo.
Aiuti internazionali, come spenderli meglio
La cooperazione allo sviluppo è stata oggetto di continui ridimensionamenti. Dai 732 milioni di euro del 2008 si è passati agli 86 milioni previsti dalla legge di stabilità 2012 e la legge di bilancio. Questo ha implicato la riduzione delle iniziative e della lista dei paesi d’intervento prioritari (da 35 nel 2010 a 15 nel 2012), la chiusura di uffici territoriali di cooperazione e pesanti tagli ai finanziamenti alle organizzazioni internazionali.
Ma il problema dell’efficacia della cooperazione non ha solo cause quantitative. Gli aiuti allo sviluppo sono oggetto di forti critiche in virtù del loro limitato impatto sulle economie locali e sulla crescita economica, come evidenziato da Dambisa Moyo in Dead Aid (2009). Il ridimensionamento della cooperazione, sommato al fallimento del paradigma degli “aiuti”, solleva serie domande sul futuro delle politiche di sviluppo quale componente della politica estera.
Se l’austerity non permette di fare di più, è doveroso cercare di fare meglio. Serve un nuovo paradigma dello sviluppo che ambisca alla creazione di una “scuola italiana” della cooperazione, basata su: 1. maggiore integrazione di politiche volte a garantire la sicurezza della popolazione civile (ovvero la “sicurezza umana”), lo sviluppo economico e la buona governance; 2. promozione della responsabilità sociale d’impresa nelle politiche di sviluppo; 3. incentivi allo sviluppo del territorio e del business locale.
Diplomazia “aperta”
La riforma del ministero degli esteri del 2010 ha introdotto diverse novità. Nello specifico: la riorganizzazione delle direzioni generali (passate da 13 a 8 e divise in base alle competenze e non più su criteri geografici); l’introduzione degli “ambasciatori manager”, dotati di responsabilità di bilancio; e il nuovo approccio della diplomazia economica volto a rendere l’Italia più competitiva a fronte dei processi di internazionalizzazione delle imprese. Il nuovo assetto istituzionale della diplomazia costituisce una chance per dare maggiore dinamismo alla politica estera, ma anche un’occasione mancata per attuare una revisione più radicale che tenga in maggiore considerazione criteri meritocratici e influenze esterne.
La diplomazia dovrebbe diventare più permeabile agli stimoli e conoscenze esterne, passando dal concetto di “corpo” diplomatico a quello di “rete” (network aperto alle expertise provenienti da vari background).
Introdurre indicatori meritocratici quale elemento chiave per gli sviluppi di carriera, selezionare alcuni ambasciatori fra le eccellenze italiane e migliorare le reti e i contatti con gli italiani all’estero potrebbero essere ulteriori passi avanti.
In un mondo sempre più interconnesso, l’Italia deve scoprirsi “social network” e, parafrasando Steve Jobs, deve cominciare ad unire i punti di questo network alla ricerca del proprio destino.
da Europa Quotidiano 19.11.11