Nessun presidente del Consiglio l’aveva mai riconosciuto così chiaramente: l’inclusione delle donne nel mercato del lavoro è una questione indifferibile. Il capitale umano femminile è una grande risorsa sprecata nell’economia italiana, un potenziale fattore di crescita che non possiamo più permetterci di ignorare. Maggiore conciliazione fra responsabilità lavorative e familiari, più condivisione fra uomini e donne nello svolgimento delle mansioni domestiche e di cura, più attenta valorizzazione dei talenti femminili a ogni livello professionale e «tassazione preferenziale» per il lavoro femminile: il discorso programmatico di Mario Monti ha richiamato i punti essenziali di quell’«agenda-D» rimasta finora lettera (quasi) morta nell’azione di governo.
L’esordio è promettente, ma occorre far presto e bene. Non solo perché nel mercato del lavoro le riforme impiegano molto tempo a produrre gli effetti desiderati, ma anche perché quando il gioco politico si farà duro (ad esempio sulle pensioni o sul nuovo diritto del lavoro) l’agenda-D rischia di finire su un binario morto. Come fare presto e bene? La sfida è quella di individuare le «scintille» giuste per i due punti cardine dell’agenda: conciliazione e Fisco. Solo vincendo questa sfida il motore dell’occupazione femminile potrà accendersi e generare i suoi benefici moltiplicatori.
Sul terreno della conciliazione, il fronte d’attacco potrebbe essere quello dei tempi e dell’organizzazione del lavoro (cominciando dal part time). Fra le donne inattive più della metà dichiara che la scarsa flessibilità di orari e modalità lavorative è un forte motivo di scoraggiamento. Da tempo la strategia europea dell’occupazione raccomanda di procedere in questa direzione: flexi-time, banche del tempo, settimana corta o supercorta, telelavoro e così via.
Secondo suggerimento, scontato: asili nido. Per le donne sotto i 40 anni, questa è la priorità assoluta, lo dicono tutti i sondaggi. L’Italia è messa abbastanza bene per quel che riguarda le cosiddette scuole per l’infanzia per i bambini dai 3 ai 6 anni. Ma prima dei 3 anni c’è un buco grosso come una casa. In media nazionale solo undici bambini su cento vanno al nido, ventuno in meno di quelli raccomandati dalla Ue (che a volte dice la sua anche sui temi sociali). La situazione è ovviamente migliore al Centro-Nord, dove la copertura è di circa 15%. Nel Sud la disponibilità di nidi è quasi inesistente, con tassi di copertura medi inferiori al 3%. Un piano credibile per potenziare i servizi per l’infanzia consentirebbe di prendere tre piccioni con una fava: maggiori possibilità di conciliazione, nuovi posti di lavoro, promozione delle capacità e delle opportunità per i bambini che nascono in famiglie svantaggiate. Attenzione, però, non è solo una questione di soldi pubblici. È anche una questione di norme e burocrazia, soprattutto a livello regionale e locale.
Il terzo suggerimento è infine una riforma dei congedi parentali, volta anche a incentivare un maggiore coinvolgimento dei padri (e dunque una maggiore condivisione dei compiti di cura all’interno della famiglia). L’introduzione di un breve congedo di paternità alla nascita di un figlio oppure la possibilità di fruire dei congedi parentali a tempo parziale potrebbero essere opzioni promettenti. In Olanda il varo di misure simili ha fatto balzare la percentuale di padri che sfruttano il congedo dal 15% al 40%.
Sul terreno del Fisco le cose sono un po’ più complicate, ma la via da seguire è abbastanza chiara. Le norme vigenti in Italia non incentivano l’occupazione femminile e funzionano per certi aspetti in modo perverso. Molte donne restano intrappolate nel circolo vizioso dell’inattività: avere un lavoro regolare (ammesso di trovarlo) non conviene perché il coniuge perderebbe agevolazioni e trasferimenti e per giunta ci sarebbero nuove spese per l’asilo e i trasporti. Il combinato disposto del Fisco e del welfare produce un adattamento al ribasso delle preferenze lavorative delle donne, con conseguenze negative per lo Stato (che spende di più per i trasferimenti e incassa meno imposte) e per le famiglie (quelle in cui c’è un solo percettore di reddito sono molto più vulnerabili).
L’esperienza di altri Paesi ci fornisce almeno due preziose indicazioni su come spezzare il circolo: ricalibrare Fisco e welfare in modo da premiare le lavoratrici madri e sostenere i bassi salari. L’esempio per noi più interessante è probabilmente quello inglese, basato su un mix di assegni universali per i figli (child benefits, senza requisiti di reddito) e crediti di imposta per le basse retribuzioni, che aumentano in presenza di figli a carico (child tax credit e working tax credit). Non si tratta di un sistema esplicito di tassazione preferenziale (come sarebbe per esempio l’introduzione di aliquote differenziate fra uomini e donne), ma di un mix integrato di trasferimenti e sussidi fiscali congegnato in modo da favorire il secondo percettore di reddito nella famiglia, tipicamente la moglie/madre.
Uno dei lasciti del governo Berlusconi è la cosiddetta doppia delega (fiscale e assistenziale) che impegna il governo a riordinare entro il 2012 il coacervo di agevolazioni fiscali e di prestazioni monetarie non contributive. L’attuazione della delega (magari riformulandola) può fornire una preziosa occasione all’agenda-D: invece di servire solo come strumento di risparmio e pulizia distributiva, la riforma potrebbe generare preziosi incentivi per favorire, insieme, il lavoro delle donne e sostenere le famiglie a basso reddito. Secondo stime recenti di Boeri e Figari (disponibili su www.lavoce.info), una riforma all’inglese, finanziata dall’abolizione di tutte le detrazioni per familiari a carico, potrebbe far crescere l’occupazione femminile fino a cinque punti percentuali, portandola dall’attuale 47% al 53%.
Nella squadra di governo formata da Monti ci sono tutte le competenze tecniche per approfondire in tempi relativamente veloci i costi e i benefici di ciascuna possibile scintilla, nel quadro della più ampia strategia di crescita, rigore ed equità indicata dal presidente del Consiglio. Per evitare il rischio del binario morto, è però indispensabile tener viva l’attenzione pubblica sul tema e insistere sul fatto che promuovere l’occupazione femminile è condizione necessaria per imboccare di nuovo il cammino della crescita. Una crescita «buona», perché in linea con aspirazioni e bisogni delle donne (ma anche di un numero crescente di uomini); perché capace di riconoscere e valorizzare capacità e talenti oggi trascurati, ignorati, discriminati; perché basata su relazioni di genere più eque, su rapporti più efficaci e armoniosi tra le varie sfere di attività, fra vita personale e lavoro. E, soprattutto, una crescita intelligente, perché volta a trasformare l’anomalia forse più vistosa del nostro modello economico e sociale — l’enorme capitale umano femminile inattivo — in un grande atout da giocare nella partita dello sviluppo, del riposizionamento italiano sui terreni della competitività economica e della qualità sociale.
Il Corriere della Sera 18.11.11