Forse Indro Montanelli aveva torto: non tutti quelli che hanno un brutto carattere hanno davvero carattere. Giulio Tremonti, per esempio. La scena di lui che mendica la tessera della Lega Nord e si sente rispondere di no completa perfettamente la figura più tragicamente ridicola di questo cambio di stagione. Con una solennità davvero fuori posto ieri l’ex superministro dell’economia ha smentito e fatto sapere di avere «interrotto ogni tipo di attività politica tanto istituzionale quanto personale». Ma ormai anche il “super” di superministro fa parte di un’altra epoca. Tremonti è politicamente morto e l’Italia sembra essersi già dimenticata di lui.
Eppure solo pochi mesi fa le sorti del paese sembravano tutte nelle mani del titolare di via XX settembre, l’unico ministro rispettato in Europa, il volto presentabile da esibire nei consessi internazionali, il solo che con il rigore dei conti aveva saputo riscattare il discredito che il presidente del consiglio aveva gettato sull’Italia.
Senza voti, senza consenso, era Super-Giulio a reggere i fili del potere in Italia, il ministro che riceveva i complimenti di Romano Prodi, il rospo che qualcuno nell’opposizione era disposto a baciare pur di cacciare il Cavaliere da palazzo Chigi.
Tra un flirt ritrovato con le fondazioni bancarie, l’asse con la Cassa depositi e prestiti, le simpatie del Vaticano e il rispetto dei salotti buoni, il pamphlettista capace di vendere centinaia di migliaia di copie con i suoi libri sulla paura cinese veniva candidato da molti addirittura a leader del forzaleghismo a trazione nordista.
Ma il ministro che sognava da Quintino Sella passerà probabilmente alla storia della Seconda repubblica come un uomo senza carattere nascosto da un brutto carattere, un arrogante travestito da timido o un timido dipinto come un arrogante. La plateale assenza al voto sull’arresto dell’ex consigliere Marco Milanese è stato solo l’ultimo atto di un inspiegabile delirio di onnipotenza, una hýbris poco giustificata dal suo essere percepito come un tecnocrate “senza partito”, diviso tra un Pdl che non lo ha mai amato e una Lega che lo ha sempre stimato, lo ha difeso ma che non lo ha mai riconosciuto come uno dei suoi (anche se Europa, il 27 ottobre scorso, non escludeva un suo interesse per il Carroccio, magari con una delega ai rapporti con i poteri forti).
La parabola del tributarista venuto da Sondrio alla fine è poco assimilabile a quell’élite tecnica prestata alla politica che in Italia si è fatta onore, da Giuliano Amato a Carlo Azeglio Ciampi fino a Mario Monti, quelli che il paese convoca nei momenti difficili. A Tremonti non capiterà mai di fare il riservista, di essere chiamato a salvare l’Italia.
Ha vinto e perso battaglie epocali (perso quella con Giuseppe Guzzetti, presidente dell’Acri, vinto quella con l’ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio), ma di lui si ricordano soprattutto iniziative più o meno stravaganti, legate – sia detto senza ironia – a una fantasia fuori dal comune: la Robin tax contro banchieri e petrolieri, i Tremonti bond (che quasi nessuno ha utilizzato), la social card, la Banca del sud.
Idee che, nella memoria collettiva degli italiani, restano comunque sepolte da una quantità di condoni di ogni tipo cui il professore di Sondrio è ricorso ogni volta che l’emergenza lo giustificava. Anche l’abolizione dell’Ici sulla prima casa (una promessa di Berlusconi, non sua), l’unica iniziativa davvero popolare dell’ex governo, potrebbe essere cancellata dal nuovo, in una resa dei conti simbolica molto interessante.
Ma allora perché Tremonti è morto politicamente così in fretta? Forse perché ha cercato di recitare troppe parti in commedia. Dietro la sua maschera di tecnicismo gelido, ha giocato con cinismo sulla capacità di sintonizzarsi con i tempi, è stato liberista e anti-mercatista, rigorista e complice degli evasori, anti-statalista e colbertista, nemico della turbofinanza e inventore di quella creativa, europeista e nemico di Maastricht.
Nell’intuire in anticipo l’impatto dell’ingresso della Cina nel Wto e il cambiamento di scala dei problemi si è dimostrato una spanna sopra la classe politica di centrodestra, ma ha sempre dato l’impressione di voler annegare i piccoli trucchi contabili o i regali agli evasori nelle disquisizioni sulla nuova Bretton Woods o sulle radici cattoliche dell’Europa.
In fondo chi ha colto meglio di tutti l’essenza del Tremonti-pensiero, Corrado Guzzanti, ne ha restituito perfettamente la doppia personalità: da una parte quello che, calcolatrice con il rotolo di carta alla mano, inventa nuove tasse e nuovi tagli al ritmo del “povca tvoia”; dall’altra quello che ci avverte della minaccia del «cetriolo globale».
L’ultima battaglia intellettuale del tributarista di Sondrio è stata quella contro gli economisti, accusati (anche giustamente) di non aver previsto la crisi.
Forse Giulio sognava semplicemente di essere uno di loro. Uno come Draghi, per dire. O anche come Monti.
da Europa Quotidiano 16.11.11
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