E se il Presidente incaricato, Mario “super Mario” Monti, decidesse di stupirci? E se questo governo “tecnico”, nel mentre che assolve i suoi compiti tecnici, volesse realizzare una di quelle riforme europee, ma davvero europee, che il nostro infelice paese sembra destinato a rinviare all’infinito?
Se, in altre parole, quello che giustamente viene definito «governo del Presidente» ritenesse di ascoltare il messaggio che proprio ieri il Presidente della Repubblica ha inviato alla società e alla classe politica? Davanti a una rappresentanza di “nuovi italiani” (giovani stranieri che hanno ottenuto la cittadinanza) Giorgio Napolitano ha invitato a considerare la «possibile riforma delle modalità e dei tempi per il riconoscimento della cittadinanza ai minori», a partire da quanto già emerso nel corso della «discussione del gennaio 2010 alla Camera dei Deputati». Perfetto. Perché non ascoltarle, quelle parole del Capo dello Stato? Siamo in una situazione di emergenza (non sull’orlo del baratro, ma dentro il baratro, come graziosamente dice Emma Marcegaglia) e il lavoro richiesto al nuovo governo è quello pesante e faticoso, e dall’esito incerto, di chi scava sotto le macerie per trovarvi tracce di vita. Ma, come c’è stato detto e ridetto, lo scopo è realizzare su ciò che resta le condizioni della ripresa e della crescita. E la crescita ha bisogno, come il pane, di energie nuove e di nuove intelligenze. Ha bisogno di volontà di emancipazione e di disponibilità al rischio e all’innovazione. Dove trovare tutto ciò? Nelle grandi potenzialità di cui dispone tuttora la nostra comunità nazionale, mortificata ma non vinta, e in quel mezzo milione di «nati in Italia e ancora giuridicamente stranieri», in quei 700mila che frequentano le nostre scuole, ovvero in quei tanti che si sentono cittadini italiani «nella vita quotidiana, nei sentimenti, nella percezione della propria identità». Insomma, «senza questi ragazzi il nostro Paese sarebbe decisamente più vecchio» (Napolitano). E può, un paese vecchio, crescere? La folle distopia (l’incubo, il sogno negativo) di leghisti, xenofobi e isolazionisti che il governo Berlusconi ha blandito l’Italia come piccola “patria” fondata sulla politica dei respingimenti ha contribuito significativamente alla nostra decadenza nazionale: quella di una società ridotta a fortezza (peraltro agevolmente penetrabile) che presidia una popolazione tendenzialmente sedentaria e senescente, immobilista e inerte. Per questo, ora che gli «imprenditori politici dell’intolleranza» sono tornati all’opposizione, per leccarsi le ferite di un ventennio totalmente fallimentare, ora finalmente è tempo di cambiare la legge sulla cittadinanza. La quale potrebbe rappresentare, oltre che un atto di civiltà giuridica, una fondamentale “riforma economica”. Sì, propriamente economica, in quanto capace se accompagnata da un’intelligente politica dell’accoglienza di incentivare sviluppo e investimenti, risorse fresche e nuovo lavoro; e in grado di ampliare il sistema della cittadinanza, la sua capacità di tutela e, di conseguenza, la sua possibilità di produrre ricchezza. Perché questo è il punto: quando si parla di rigidità del mercato del lavoro, la pigrizia intellettuale e politica sembra incapace persino di cogliere come altre forme di rigidità immobilizzino il nostro sistema. L’attuale normativa sulla cittadinanza ne è un esempio, ancor prima che iniquo, ottuso: una legge pensata per una società in cui gli stranieri presenti si riducevano a poche decine di migliaia. Ora che la percentuale di Pil prodotta dal lavoro di milioni di stranieri viene valutata intorno all’11%, una razionale legge sulla cittadinanza può costituire un’importante leva sociale ed economica. Perché non crederci?
L’Unità 16.11.11