Nel giro di pochi giorni è accaduto qualcosa di importante, sia in Italia sia in Grecia, che ci obbliga a inforcare nuovi occhiali, di tipo bifocale, fatti per vedere quel che accade in Italia e simultaneamente in Europa, quel che s´è guastato e va riparato qui da noi e lì. Anche il tempo dovremo imparare a guardarlo con lenti bifocali, combinando la veduta ampia e la corta. Italia e Grecia non sono comparabili, perché la nostra svolta mette fine a un lungo esperimento populista, quello berlusconiano. Ma Roma e Atene hanno in comune due cose non trascurabili. In ambedue, la politica è stata per decenni sinonimo di corruzione e realtà occultata, e per questo è degenerata. In ambedue, si sta tentando una via inconsueta: lo scettro passa a uomini considerati tecnocrati, ma che non sono affatto nuovi alla politica.
I due tecnici sanno perfettamente la dedizione speciale (la vocazione) che ci si aspetta dal professionista politico, ed è con la massima naturalezza che Monti, intervistato, ha detto che «operazioni così grandi» – riordinare la nostra economia – «richiedono politica, più che tecnica». Sia lui che Papademos non sono nuovi alla politica, solo che l´hanno fatta a un altro livello: quello europeo. La res publica italiana, che è lo spazio cui la nostra democrazia è avvezza, ha come complemento, ormai, una res publica europea: una cosa pubblica, con suoi organi di governo e controllo democratico, che influisce sulle nostre vite non meno dei governi nazionali. Che fa di ciascuno di noi, anche se non lo percepiamo, cittadini europei oltre che italiani.
Mario Monti è stato per 9 anni nel governo europeo che è la Commissione di Bruxelles: lì si è occupato prima di mercato interno poi di concorrenza, e ha condotto battaglie molto dure, molto politiche, contro gli abusi di posizione dominante e il capitalismo senza regole. Cos´è stata, la sua cocciuta battaglia contro Microsoft o la fusione General Electric-Honeywell, se non governo dell´economia? Lucas Papademos è stato per 8 anni vicepresidente della Banca centrale europea, e ha visto il ruolo della Bce farsi cruciale. L´uno e l´altro hanno fatto politica piena, se politica è governo della vita pubblica e dei suoi conflitti in nome di cittadini (o nazioni) associati.
Parlare di un potere di tecnocrati e banchieri centrali che avrebbe usurpato il trono del politico vuol dire ignorare coscientemente la realtà in cui viviamo, fatta non di evaporazione ma di differenziazione-moltiplicazione della sovranità politica. Siamo membri delle nazioni e al tempo stesso dell´Europa. La sovranità del popolo si esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione italiana, ma anche di quella europea. La seconda Costituzione esiste di fatto – con le sue leggi preminenti sulle nazionali, con la sua Carta dei diritti inserita nel Trattato dunque giuridicamente vincolante – anche se gli Stati, vigliaccamente, si son rifiutati di dare al Trattato di Lisbona il nome di Costituzione. È per una sorta di ignoranza militante, strabica, che non scorgiamo quel che pure esiste. Un´ignoranza che paradossalmente affligge più i centristi che le forze estreme, di destra o sinistra. Queste ultime hanno visioni più apocalittiche e nazionaliste, ma spesso vedono più chiaro.
Anche l´accusa di scarsa democraticità nasce da ignoranza militante. Le istituzioni europee non sono del tutto democratiche, il Parlamento europeo non ha i poteri che dovrebbe avere. Ma ne ha molti. Dipende dai partiti accorgersene, e fare vera politica europea: trasformando le elezioni dei deputati di Strasburgo in autentica deliberazione comune, imponendo l´elezione diretta del Presidente della Commissione, suscitando un´agorà europea. Quanto alla democrazia italiana, non è credibile chi ritiene lesa la Costituzione perché caduto un governo non si va subito alle urne. La prassi degli ultimi 18 anni ha personalizzato le elezioni sino a diffondere un´idea storta della nostra democrazia: l´idea che il popolo scelga il leader una volta per tutte.
La personalizzazione è il riflesso della dottrina berlusconiana, non della Costituzione. Quando un Premier perde la maggioranza per governare, il Quirinale tenta di formare un altro esecutivo. Allo stesso modo è il Presidente del consiglio incaricato e non i clan partitici a proporre ministri al capo dello Stato (articolo 92 della Carta). Rifondare la democrazia è tornare alla Costituzione scritta, non a quella sfigurata da consuetudini e poteri più o meno occulti fin dai tempi della Prima repubblica.
Ma anche i due cosiddetti tecnici chiamati a guidare Italia e Grecia devono apprendere l´arte politica nella sua accezione ormai doppia, nazionale e (sempre più) europea. L´esperto economico ha spesso la tendenza a contemplare tabelline. Cambiare il mondo, creare istituzioni politiche, non è precisamente la cosa cui è abituato. Invece dovrà farlo – in Italia dovrà occuparsi di legge elettorale, di indipendenza Rai dai partiti – se è vero che la crisi è una grande trasformazione sociale, democratica, geopolitica. Anche l´euro fu progetto politico, voluto da statisti come Kohl e Mitterrand: tecnici e banchieri centrali, di rado rivoluzionari, erano contrari.
La scommessa di Monti e Papademos ha senso se assumono in pieno il rischio della politica, non solo in patria. Anche in Europa infatti urge il riscatto, oltre che a Roma o Atene. Anzi, a Roma e Atene è possibile solo se avviene anche in Europa. Non è ammissibile che a indicare la linea sia un leader nazionale (Merkel, Sarkozy) piuttosto che istituzioni comuni come Commissione, Parlamento europeo, Bce. Non è ammissibile che Berlino continui a opporsi a un´Europa più solidale, e a istituzioni o misure che accentuino l´unità: un governo federale, una Banca centrale prestatrice di ultima istanza, un Fondo salva-Stati sovranazionale, un ricorso agli eurobond.
Sono istituzioni e misure auspicate dai governi in difficoltà, ma anche da organi comunitari come la presidenza dell´Eurogruppo e il Parlamento europeo. D´altronde personalità tedesche di primo piano invocano simili rivoluzioni: tra esse il ministro del Tesoro Schäuble (intervista a Le Monde, 13-9). Il no tedesco forse s´attenuerebbe se gli Stati rinunciassero a parte della propria sovranità economica (avvenne quando Berlino accettò l´euro in cambio del Patto di stabilità): è una strada da tentare. Non è stato Monti, in un bell´articolo sul Financial Times del 20 giugno, a denunciare l´immobilizzante deferenza tra Stati dell´Unione? Speriamo che questa impavida capacità critica la dimostri anche da Premier, se scioglierà la riserva. Speriamo che anche in casa non sia troppo deferente. Non sarebbe stato promettente includere nel governo Gianni Letta, se questi non avesse garantito pubblicamente l´indipendenza dagli interessi personali del capo. Ancor meno promettente la scelta, da parte di Papademos, di due ministri della destra più estremista, Makis Voridis e Adonis Georgiades.
Converrà esserne coscienti: finisce per il momento Berlusconi, non il berlusconismo. Non finisce l´estremismo del centro che lo caratterizza, e che si nutre e nutre l´elettorato di paura del nuovo. Non si ricomincia da zero, come se alle spalle non avessimo il quasi ventennio. La memoria da tener viva, e l´arte politica da reinventare, sono come l´amore del prossimo insegnato nel Vangelo. Cos´è l´amore del prossimo, chiede il dottore della Legge (l´equivalente del tecnocrate filisteo)? Gesù risponde con la parabola del Samaritano che si trasforma guardando il dolore che ha davanti (gli si spaccano le viscere, questa la compassione che prova) e conclude, rivolto all´esperto in leggi e teorie: «Và, e anche tu fa´ lo stesso». Anche in Italia è questa la via: «Và, e fa´ memoria. Và, con spirito profetico oltre che col tuo sapere tecnico, e fa´ politica».
La Repubblica 16.11.11
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La linea Maginot “Niente politici”, di CLAUDIO TITO
«Il governo è più forte senza politici». La battaglia condotta dal Pd contro l´ingresso di Gianni Letta e Giuliano Amato nell´esecutivo Monti si è basata su questa considerazione. Una frase che Pierluigi Bersani ha ripetuto costantemente nelle ultime 48 ore. I democratici hanno dunque alzato la loro linea Maginot per evitare di dover sostenere un ministro che rappresenta il principale collaboratore di Silvio Berlusconi.
Sul ruolo del sottosegretario uscente e di Amato, però, si è giocata una partita che ha provocato qualche scossone al nascente gabinetto tecnico. La paura di Napolitano e dello stesso premier incaricato si fondava sul rischio di gettare nella mischia parlamentare un governo senza “difesa politica”. Per Bersani, però, l´esigenza di dare un segno di effettiva «discontinuità» alla nuova fase politica costituiva l´unico e inderogabile atout di fronte all´elettorato di centrosinistra che non avrebbe compreso la partecipazione ad una responsabilità comune con uno dei principali esponenti del mondo berlusconiano. Il segretario pd aveva bisogno di non arretrare di fronte alla sua “resistenza” proprio per giustificare le larghe intese davanti a tutto il partito. L´assenza di Letta, insomma, veniva considerata la precondizione per rendere più agevole il percorso di adesione del centrosinistra ad un esecutivo che molto probabilmente sarà chiamato ad approvare una serie di misure decisamente impopolari anche se indispensabili per evitare il collasso economico del Paese.
Del resto, l´idea che Letta potesse rappresentare una sorta di “deus ex machina” in grado di blindare politicamente Monti e dare prestigio interno e internazionale al nuovo gabinetto, non convinceva i democratici e nemmeno gli uomini del Pdl. Il segretario Alfano non ha fatto nulla per difendere il braccio destro del Cavaliere. Non lo ha fatto perché il clima che si è ormai creato nel suo partito sta diventando insostenibile. Le probabilità che il Popolo delle Libertà vada incontro ad una vera e propria diaspora stanno progressivamente aumentando. La guerra delle correnti sta prevalendo sulla precedente linea di condotta interna: quando Berlusconi decideva di fatto ogni cosa. Adesso gli “scontenti” sono la nota principale del Pdl. E indicare un solo esponente per la futura compagine governativa equivaleva a provocare una sanguinosa battaglia intestina. Il pressing dei colonnelli su Alfano, infatti, è stato costante e lo ha indotto a non sponsorizzare Letta con la forza che anche Napolitano si aspettava. Una difficoltà che lo stesso segretario piediellino ha esposto nelle conversazioni con il “collega” Bersani.
L´intesa raggiunta da Pdl, Pd e Terzo polo per un governo composto interamente da “tecnici”, non cancella però tutti i dubbi che anche Napolitano ha coltivato sulla robustezza dell´esecutivo Monti. Gli ostacoli che dovrà affrontare alla Camera e al Senato restano tutti intatti. E molto dipenderà dalla lealtà dei gruppi parlamentari. I Democratici e l´Udc non potranno fare a meno di fornire il loro pieno sostegno anche in virtù di un progetto politico che per entrambi si baserà sul successo di questo governo. Ma per il Pdl il discorso è completamente diverso. Il futuro del partito berlusconiano si configura sempre più come una variabile. Le incertezze interne potranno riflettersi su Palazzo Chigi. A meno che il ruolo di Casini e Fini non si trasformi progressivamente in quello di catalizzatori dei moderati del centrodestra. Anche a livello parlamentare.
In questo quadro, il capo dello Stato e il presidente del consiglio incaricato hanno comunque deciso di accelerare sulla formazione della squadra accogliendo le garanzie fornite da Bersani e Casini. Monti probabilmente si appoggerà in primo luogo su di loro sapendo che ormai il tempo a disposizione è ridottissimo e i mercati – molto negativi ieri – attendono oggi una risposta concreta.
La Repubblica 16.11.11
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“Partiti non è tempo di veti”, di MARCELLO SORGI
Se davvero, come dicono tutti (tranne Monti), la presentazione della lista dei ministri è stata rinviata da ieri sera a stamane per decidere se anche Gianni Letta e Giuliano Amato entreranno nel governo, dando così un connotato più politico a un esecutivo che s’annuncia tecnico, converrà approfondire il caso sul quale da tre giorni si consumano le energie dei principali protagonisti della crisi, da Napolitano all’incaricato, a Berlusconi e Bersani.
Il paradosso di questa storia è che a voler richiamare in servizio l’ormai ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, nonché capo operativo del governo uscente, Letta, e il due volte presidente del Consiglio Amato, è in prima persona Monti, che non avrebbe potuto insistere su questo punto se anche il Capo dello Stato non fosse stato d’accordo.
Napolitano, si sa, ha smentito nella prima fase delle trattative di essersi occupato dei nomi della lista, che sarà l’incaricato a scegliere. Ma adesso che la crisi è finita e il Presidente, a norma dell’articolo 92 della Costituzione, dovrà, su proposta di Monti, nominare i ministri, dovrà pronunciarsi anche lui. A maggior ragione dato che quello di Monti sarà, a tutti gli effetti, un «governo del Presidente»: un esecutivo, cioè, voluto dal Capo dello Stato per far fronte a un’emergenza eccezionale, prima ancora che dai partiti che dovranno dargli la fiducia in Parlamento.
In realtà, al di là delle smentite di rito, Napolitano in questi giorni si è adoperato, non per aprire la porta del governo a Letta e Amato, compito che d’altra parte non gli tocca. Ma per sminare il percorso di Monti dai veti contrapposti che i due maggiori partiti che dovrebbero formare la maggioranza di larghe intese avevano manifestato. Veti capziosi in sé, al di là delle persone che riguardavano, perché tendevano a riportare la formazione del governo nell’alveo classico della contrattazione partitocratica tipica delle vecchie crisi.
Era evidente, in altre parole – ed era il secondo aspetto paradossale di questa storia – che Bersani e Berlusconi si opponevano rispettivamente a Letta e Amato perché, rafforzando la squadra di governo, avrebbero indebolito il loro potere di ritirare a Monti l’appoggio in tempi brevi, per tornare alle urne il più presto possibile. Di qui, tra l’altro, le polemiche parallele sulla necessità (secondo il Pdl) di imporre, oppure (secondo il Pd) di non imporre, un termine temporale, oltre che un vincolo programmatico al governo. E se questo è quel che è emerso pubblicamente in tre giorni, chissà quanti e quali altri cavilli e distinguo devono essere stati fatti nelle lunghe ore delle consultazioni. Inoltre, sarà pure un dettaglio, ma i veti contro Letta e Amato hanno toccato punte di sgradevolezza ingenerose, nei confronti di due servitori di lungo corso delle istituzioni: come quando, appunto, Bersani ha ribadito varie volte la necessità di una completa discontinuità della compagine ministeriale, o quando Rosy Bindi ha dichiarato che in nessun caso Amato poteva essere messo in conto al Pd, o Gasparri ha chiuso sbrigativamente all’ipotesi che potesse rientrare al governo chi aveva avuto precedentemente incarichi con il centrosinistra.
Nessuno che si sia posto il problema che, proprio per la loro caratteristica di essere stati, sì, al governo, ma con una coloritura politica assai più sbiadita di tanti loro colleghi, e con una competenza spesso superiore, Letta e Amato sono l’ideale per accompagnare Monti in un cammino che è forse il più difficile mai attraversato da un governo in epoca repubblicana. O, quel che è peggio, forse è proprio tenendo in considerazione quest’aspetto che i maggiori partiti del governo e della maggioranza che stanno per nascere hanno costruito il loro sordo boicottaggio alle due candidature.
Ma almeno, alla fine del mediocre tira e molla che, come si diceva, ha allungato inutilmente i tempi di soluzione della crisi e nell’attesa ci è costato anche qualche punto in più di spread che poteva essere evitato, i termini della questione sono chiari. Per la loro esperienza e al di là delle loro precedenti collocazioni personali, Letta e Amato, se malgrado tutto riusciranno a entrare, saranno una garanzia di maggior solidità del governo. I veti dei partiti, benché resistenti, non possono contare in circostanze eccezionali come quelle attuali e nell’ambito di un governo che nasce garantito dal Capo dello Stato e per sua espressa volontà. Insomma non c’è più tempo da perdere: Monti decida. E soprattutto, finché può, faccia di testa sua.
La Stampa 16.11.11