In fondo è tutto un problema di forme e quindi, al giorno d´oggi, di sostanza. Per cui nel pomeriggio fatale dell´addio di Berlusconi, sic transit gloria mundi, il pensiero va al piccolo trolley del professor Monti, che l´altro giorno è arrivato a Roma con l´aereo di linea e poi è andato a prendere la moglie alla stazione Termini; e c´è una foto di loro due al binario, gente nei pressi, ma per gli affari suoi, e si capisce che nessuno o quasi l´ha riconosciuto; e viene anche da chiedersi se l´Italia non abbia bisogno di semplicità. Quando si muoveva il presidente Berlusconi era come la partenza di un circo: macchine blu e macchinette argento, camioncini neri dai vetri oscurati, e registi, producer, sirene e sirenette, guardie di ogni ordine e tipo che giravano con una sorta di borsa antiproiettile con la quale schermavano il corpo del Capo eseguendo una bizzarra e silenziosa coreografia.
E colpisce che ieri il Cavaliere abbia ricevuto il professor Monti a Palazzo Chigi, sede ufficiale della presidenza del Consiglio, e non a Palazzo Grazioli, vero cuore del tardo-berlusconismo in uscita. Questi oltretutto è ubicato a un indirizzo piuttosto impegnativo: via del Plebiscito. Prima Berlusconi abitava a via dell´Anima e all´ora di pranzo gli alleati si presentavano per sperimentare la cucina del cuoco Michele; il padrone di casa era prodigo di cioccolatini, «Prendetene, prendetene – incoraggiava gli ospiti – anche per dopo!». C´era lì anche un magnifico bagno con un oblò che si affacciava su piazza Navona e così i maggiorenti del centrodestra, con i relativi imbucati, non mancavano di fare una passatina anche lì dentro per poterlo poi raccontare in famiglia.
Ma sotto la strada era davvero stretta, mentre da anni la spazio antistante Palazzo Grazioli, oggi transennato e militarizzato, ospita spesso manifestanti e volentieri una specie di corte dei miracoli con personaggi eccentrici in vena autopromozionale, uno pure vestito da Superman. Però i giornalisti non si possono più sedere sulle fioriere sul retro e sul davanti hanno tolto anche la fermata dei bus (si spera da domani ripristinata). Lì dentro, come noto, è accaduto di tutto: il lettone, le trattative, le farfalline, il gatto Miele, le coppe del Milan, la redazione del Mattinale, il «parlamentino», il va e vieni di notturne Smart, Mini e tante altre simpatiche usanze.
Monti invece a Roma scende in albergo che come assicurano i depliant ha una magnifica vista sui fori, ed è vero. Ma è pure vero, da altro più metaforico punto di vista, e specialmente adatto all´attuale passaggio, che quei fori sono in realtà muri sgretolati, colonne a terra, frantumi, rovine, macerie.
Dopo «anni di regno» ha scritto ieri Le Monde Berlusconi «lascia l´Italia come l´ha trovata», e la sintesi suona brillante, ma il sospetto è che l´Italia sia molto peggio, dopo di lui, e soprattutto che stia ancora peggio che nel 1994. Oltre che nei numeri della crisi la degenerazione si rispecchia nelle forme espressive e perfino smaglianti di un potere configuratosi al tempo stesso evoluto e arcaico, non solo perché esercitato da un magnate dei media con tecniche avanzatissime, ma come sospeso nel tempo dei regimi pre-democratici, indifferente alle altrui opinioni, prossimo a un astuto e morbido assolutismo.
Condizione inedita e complicata. Nel 1994 Berlusconi si affermò come il messia del dominio spettacolare che da allora ha cominciato a cambiare l´arte di governo in Italia. Fin dal primo comizio, sulla spinta dell´ideologia pubblicitaria e del marketing introdusse il calore delle emozioni a scapito del ragionamento e l´energia della seduzione contro i motivi e i tempi della persuasione; passeggiava su e giù per i palchi, faceva lo spiritoso, strizzava l´occhietto alle signore come da giovane sulle navi. Ricevuto l´incarico, ritornando dal Quirinale raccolse i baci della folla e promise di fare «cose buone». E a chiunque, sotto le feste, augurava «un mare di coccole».
Un tecnocrate come il rettore della Bocconi può capire fino a un certo punto l´odierna dittatura dell´intimità. Ma Berlusconi ha sempre improvvisato, per lo più colpi di genio, aiutato dalla più incredibile faccia di bronzo. Gli tolsero l´Italia, e se la riprese nel 2001. E qui la faccenda dello stile di comando cominciò a farsi insieme delicata e complicata. Il presidente governava dai suoi palazzi e dalle sue ville. C´era una autentica famiglia reale, e al posto del partito una corte con i dovuti cortigiani, cappellani, maggiordomi, scalchi, giardinieri, guardie, servi, in seguito anche ruffiani e prostitute. Nella cornice tecnologica dei media, che meglio di chiunque lui sapeva controllare, con il pretesto del carisma, presero a riemergere troni, corone, investiture, ordalie, messianismi (Baget Bozzo e la Provvidenza), miracolismi (un milione di posti), culto della personalità (il sole, la luce). Il sovrano intratteneva il pubblico sul suo prezioso corpo, l´ennesima prova che si trattava, come scrisse Franco Cordero, di una «Signoria fiorita fuori stagione». A un dato momento riscappò fuori dal medioevo televisivo addirittura la taumaturgia: a Porta a porta, per risvegliarlo dal coma, Vespa fece ascoltare a un ragazzo, tifoso del Milan, un nastro con la voce del Cavaliere che lo incoraggiava a uscire dalla sua condizione.
Jean Baudrillard fece in tempo a designare tutto questo: «Una specie di pornografia accelerata». In quegli anni il professor Monti tornava in Italia da Bruxelles, s´immagina perplesso. Quando il Cavaliere riguadagnò l´Italia per la terza volta, quello che appariva come paternalismo – soldi brevi manu, assunzioni in diretta, donazioni di massa, opuscoli recapitati a casa – acquistò le tinte cupe di un ostentato populismo con tratti narcisisti e di megalomania. E insieme a un´etica e a un´estetica che Dagospia fa coincidere con il «barocco brianzolo» (però a occhio corretta da un certo gusto imperial-trash), si fissarono nell´immaginario i nuovi tele-rituali del potere: il bagno di folla, lo shopping, la telefonata in diretta, la barzelletta volgare, l´incontro con la scolaresca.
Il bunga bunga, liturgia esclusiva, sarebbe emerso di lì a poco. Un giorno il Cavaliere ordinò di ricostruire il pene che mancava a una statua di Marte presa in prestito dal museo delle Terme. Era un altro segno che il regime personale virava verso la satrapia. A quel punto Tarantini, Lele, Fede, la Minetti e l´Ape Regina erano insostituibili nel suo cuore triste. Impressiona che proprio oggi l´amico Putin, per difenderlo, abbia detto che Berlusconi «ha fatto quelle cose solo per attrarre l´attenzione». In qualche modo può anche essere così. Però, viene da pensare: eh, Dio ci protegga quel trolley e l´anonima compostezza del professore che va a prendere la moglie alla stazione Termini.
La Repubblica 13.11.11
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“Cade la maschera del Grande Seduttore”, di CURZIO MALTESE
Il passaggio di consegne dal re giullare al salvatore della Patria è una ricorrenza quasi religiosa, un rito della storia italiana. Segna la fine del regno del carnevale e il principio del tempo forte e cupo della quaresima, illuminato dalla speranza di resurrezione. Il ritorno al principio di realtà si compie con un altro atto classico, l´eterno mattino dell´8 settembre italiano in cui con un breve comunicato si ammette, dopo mille bugie, che la guerra è persa.
E si annuncia la resa alle soverchianti potenze straniere. L´uomo che incarna l´avvento della nuova stagione, in questo caso Mario Monti, esprime come caratteristica essenziale un tratto altrove normale per un capo di Governo, ma che in Italia si richiede soltanto in epoche tragiche: la serietà.
In tempi non drammatici molti italiani preferiscono affidarsi a figure pittoresche, i re buffoni. Nella tradizione medievale le due figure sono separate. Il giullare è un artista di molti talenti, addetto ai piaceri della corte. Canta, balla, racconta storie e fa battute. Il re lo tiene accanto a sé perché gli ricordi i propri difetti, ma quando esagera lo impicca. È anche un ciarlatano da strada, imbonisce la folla, racconta balle e riscuote il frutto del divertimento piazzando merci false ed elisir di lunga vita. Nella storia politica italiana invece re e giullare sono spesso una sola persona. L´elenco è lungo, comprende vari esponenti dei Savoia e naturalmente Mussolini. Per rimanere alla nostra epoca, gli interpreti più riusciti di questa tendenza alla clownerie delle classi dirigenti sono, in ordine di apparizione, Umberto Bossi e Silvio Berlusconi. Il Berlusconi della discesa in campo è debitore nei confronti del Senatur di molte intuizioni, soprattutto del fiuto nel cogliere lo spirito dei tempi, la voglia d´imbonimento, d´antipolitica volgare, d´invenzioni strampalate e surreali, come la Padania o il complotto comunista planetario, di trovate da bar e promesse impossibili, come i milioni di posti di lavoro e il nuovo boom economico, da opporre a una realtà di declino che il ventre molle del paese non voleva nè guardare nè tantomeno affrontare. Rispetto alla casereccia macchina di propaganda leghista, il Cavaliere può contare su ben altri mezzi e strumenti e li s usare con indubbia abilità. Si assiste così all´incredibile ascesa dell´anomalia italiana. Un leader, anzi un sovrano che il popolo vede ammantato di luccicante mantello carismatico, ma il resto del mondo considera soltanto ridicolo.
Il capolavoro di Berlusconi è questo, d´essere riuscito a imporre in Italia come senso comune quanto a tutto il mondo, con l´eccezione di qualche regime amico, appariva come una grottesca follia. Ed è stata alla fine una risata a seppellire la stagione berlusconiana. La risata inattesa di Merkel e Sarkozy nella solitamente paludata sala stampa di Bruxelles. Ma Berlusconi è rimasto fedele al ruolo di re giullare sino al termine. La sua ultima frase celebre, in fondo a diciassette anni di fandonie, è quella sulla crisi che non esiste, sui ristoranti pieni e gli aerei dove non si trova posto. Fino a che la realtà non si è presentata alla porta, con l´espressione grave del professor Monti.
Il pranzo di ieri fra il grande seduttore ormai in disarmo e il neo senatore a vita ha in sé qualcosa di melodrammatico. Rimanda al pranzo fra Don Giovanni e il Commendatore. Monti è il convitato di pietra del berlusconismo, la statua vivente che bussa alla porta, spaventando i Leporelli di turno, che da tempo consigliano al padrone la fuga. È il rintocco della fine.
Mario Monti è nato a Varese, patria della Lega, e si è formato a Milano, come Berlusconi. Qui finiscono le analogie. Per il resto è difficile immaginare personaggi tanto distanti, perfino nel modo fisico di porsi all´altro. Da una parte del tavolo la figura sobria del rettore della Bocconi, 68 anni ben portati, ma senza alcun trucco, un solido prestigio internazionale guadagnato sul campo, un´ancora più solida matrice moderata, cultura classica e amore per i libri di storia, insomma una rara incarnazione italiana di alto borghese. Dall´altro lato un uomo di 75 anni suonati agghindato come un giovanotto sotto una finta chioma corvina, gravido di cerone, un´improvvisatore populista che si lancia in un inglese maccheronico nei vertici internazionali, sforna sgangherate citazioni latine, si dichiara disposto in tv a «incontrare il papà dei fratelli Cervi, che ha sofferto tanto», colloca l´Aventino nel 1929 invece che nel 1924 e ammonisce la sinistra ad abbandonare il comunismo come ha fatto la social democrazia tedesca a «Gotesborg». Il simbolo stesso di una ricchezza sgangherata e incolta, oltre che del cialtronesco sovversivismo delle classi dirigenti italiane.
Il presidente del Consiglio che ha governato di più nella storia repubblicana e quello che ha fatto più ridere l´universo è costretto a cedere il passo alla serietà in persona. In quasi un ventennio di attività internazionale, in un´epoca dove le classi dirigenti si formano e spariscono nello spazio di un lustro, Berlusconi è finito sulle prime pagine del mondo soltanto per le pagliacciate, le gaffes, le barzellette sceme e offensive di quasi tutte le categorie sociali, le corna alle foto di gruppo, il cucù ad Angela Merkel, il «mister Obamaaaa!» berciato alle orecchie dell´esterrefatta regine d´Inghilterra, l´umorismo greve da capoufficio in gita aziendale e applaudito soltanto dai sottoposti, il gusto per il kitsch estremo che gli ha fatto spargere sipari di cartapesta sulle bellezze di Genove come sui problemi del Paese.
Ieri, 12 novembre 2011, il più lungo regno del carnevale della storia è finito ed è cominciata la quaresima del professor Monti. La distinzione potrebbe però non essere così netta. Nei mesi drammatici che attendono il paese la maschera seria e quella buffonesca sono destinate a intrecciarsi.
La Repubblica 13.11.11