S’ode a destra uno squillo e a sinistra risponde uno squillo: allarme, la democrazia è in pericolo. In questi giorni, mentre Mario Monti si appresta a formare un nuovo governo, dai lati estremi degli schieramenti politici e giornalistici italiani si è levato davvero un coro, come quello di manzoniana memoria, che denuncia il deficit di consenso democratico della soluzione alla crisi che si va profilando. Alcuni, dotati di maggiore vis polemica o di maggiore immaginazione, si sono spinti addirittura a lanciare il grido d’allarme per un presunto «golpe» contro le istituzioni democratiche del nostro Paese.
Di fronte a queste compunte e sdegnate preoccupazioni si oppongono, in genere, due rilievi. Il primo riguarda il fatto che qualsiasi governo, di qualsiasi natura, deve trovare l’approvazione del Parlamento e, con ciò, ottiene la qualifica di «governo politico». Il secondo ricorda che i dieci anni passati da Monti come commissario europeo attribuiscono al candidato in pectore di Napolitano (e di tutta la comunità internazionale) una caratura politica indubbia e collaudata.
Le due osservazioni, però, non possono mettere a tacere quella preoccupazione, perché essa coglie un punto di assoluta verità ed esprime un timore del tutto fondato. Perché la politica, non solo in Italia, si è dimostrata incapace di governare i meccanismi dell’economia e della finanza internazionale e impotente davanti agli effetti sconvolgenti di quelle dinamiche sulla vita dei cittadini. Per limitarci al nostro Paese, tutti ormai conoscono le ricette per adeguare la nostra struttura economica, sociale, ma anche politica, alle trasformazioni compiute nel mondo, sul piano della competitività e alla luce dello straordinario allargamento dei mercati avvenuto negli ultimi vent’anni. Ma le forze politiche, nello stesso periodo di tempo, hanno dimostrato una patente inadeguatezza culturale e una manifesta debolezza rispetto a quello che avrebbe dovuto essere il loro compito fondamentale: per dirla come l’ha chiamata Monti, «la riforma dei privilegi e delle rendite nazionali». Quell’Italia corporativa e immobile che ha sconfitto sempre la politica nei suoi timidi e confusi sforzi di cambiamento.
I partiti si sono completamente arresi davanti alla forza degli interessi clientelari che rappresentavano. I leader hanno ristretto, sempre di più, la loro visione alle convenienze e ai risarcimenti del presente, rinunciando a qualsiasi ambizione di un progetto futuro. Condannandosi così all’irrilevanza e, appunto, all’impotenza, rispetto alle esigenze di un veloce adeguamento del «sistema Italia» alle sconvolgenti novità delle mutazioni che, nel frattempo, avvenivano sul palcoscenico del mondo.
Se questa diagnosi è corretta, la terapia deve ricorrere necessariamente a quell’intervento, più o meno esterno al sistema partitico italiano, che sovente nella storia d’Italia ha permesso, sia il superamento di emergenze economico-sociali drammatiche, sia una modifica, più o meno profonda, della struttura politica e, magari, istituzionale dell’Italia. Per superare il vero e proprio circolo vizioso dell’immobilismo nazionale: l’impossibilità dell’autoriforma della politica.
Come si fa davvero a credere che i parlamentari si dimezzino, che i cosiddetti «costi della democrazia» si riducano drasticamente, che si aboliscano privilegi e arroganze di quella che viene comunemente chiamata «la casta» solo con la miracolosa bacchetta magica delle elezioni? Per di più, con una legge elettorale che toglie ai cittadini il diritto di scegliere i loro rappresentanti, consegnando tutto il potere alle segreterie romane? Come si fa a sperare ancora che si possano superare i veti di sindacati e partiti che continuano a privilegiare, nel mercato del lavoro, le garanzie degli iperassistiti, rispetto ai diritti dei giovani e dei precari? O che difendono, come un tabù, quelle pensioni d’anzianità che i mutati andamenti demografici rendono impossibili da sostenere, tanto è vero che costituiscono l’ennesima specialità italiana rispetto ai sistemi previdenziali stranieri.
Ecco perché non si tratta di «abolire la politica», o di «sospendere la democrazia», ma di approfittare di una gravissima crisi italiana per avviare un ciclo di politica diversa, capace, proprio per le sue caratteristiche di maggiore libertà rispetto alle esigenze clientelari o semplicemente elettorali, di sconfiggere le «circoscrizioni» che, finora, hanno impedito quei cambiamenti che tutti ormai hanno capito come necessari e urgenti.
A questo proposito, è evidente il vantaggio che otterrebbe Monti se riuscisse a contare, nel suo governo, su ministri il più possibile sganciati da esigenze o rappresentanze partitiche. Ma, a pensarci bene, tale distacco avvantaggerebbe anche gli stessi partiti. Non tanto perché eviterebbe le sconvenienze «estetiche» di quelle foto del giuramento davanti a Napolitano, con volti di ex acerrimi nemici costretti agli obbligati sorrisi di una doverosa collaborazione nella nuova squadra ministeriale: l’ipocrisia delle convenienze politiche è sempre più forte di qualsiasi decenza e di qualsiasi coscienza. Quanto perché le impopolari misure che, purtroppo, si preparano nel futuro prossimo degli italiani dovrebbero consigliare una certa lontananza dei protagonisti della nostra politica dai quadretti del «totoministri» che ormai si affacciano da giornali e tv.
La Stampa 12.11.11