Servizi sociali efficienti. Un movimento femminista agguerrito. Una società aperta e tollerante. L’Islanda è il miglior paese al mondo per le donne. E si è affidata a loro per uscire dalla crisi economica del 2008. E’ un giorno umido a Reykjavik. La pioggia batte sulle barche dei pescatori, per strada ci sono negozi di souvenir e giovani artisti con baffi improbabili. La ministra dell’industria, dell’energia e del turismo mi spiega che il paese dovrebbe essere “più severo” nella lotta alle diferenze salariali tra uomini e donne. Katrín Júlíusdóttir è una donna di trent’anni, cordiale e attraente, ed è incinta di due gemelli. Nella sua voce c’è una leggera nota di frustrazione. Come in Gran Bretagna, anche in Islanda vige la legge dell’equal pay for equal work, che dovrebbe garantire la parità salariale tra lavoratori e lavoratrici. “E allora perché non abbiamo sanzioni più dure per chi non la rispetta?”, si chiede Júlíusdóttir. “Dobbiamo essere molto severi con chi infrange le leggi”.
Siamo seduti nell’ufficio della ministra, in un anonimo palazzo a poche centinaia di metri dal porto di Reykjavik. Katrín (la chiamo per nome perché così si usa in Islanda) parla dei diritti delle donne con un trasporto inusuale. È una femminista, certo. E apprezza il fatto che l’attuale governo islandese sia composto da quattro donne e sei uomini. Ma è convinta che questo non basti: si deve arrivare al 50 per cento. In seguito al disastroso crac delle banche islandesi nel 2008, spiega, oggi il paese “vuole una società equilibrata. E per raggiungere questo obiettivo bisogna partire dalla parità tra uomini e donne”.
Secondo alcuni in Islanda la parità tra i sessi è un fatto compiuto. E in effetti in un certo senso questo paese somiglia molto a un paradiso femminista. Negli ultimi due anni l’Islanda ha guidato la classiica del World economic forum sull’uguaglianza di genere e, recentemente, è stata nominata da Newsweek il paese migliore per le donne. Lo studio del settimanale statunitense prende in considerazione vari parametri: salute, istruzione, economia, politica e giustizia. In tutti questi campi, soprattutto nell’ultimo, l’Islanda è in cima alle graduatorie. La premier Jóhanna Sigurðardóttir ammette, in un’email, di essere molto orgogliosa dei risultati della ricerca. “E non mi riferisco solo alla condizione delle donne”, scrive, “perché la parità dei sessi è uno dei più attendibili indicatori della qualità della vita di un paese”.
Nella fredda foschia che avvolge Laugavegur, la strada principale di Reykjavik, chiedo lumi alle donne islandesi. Gudrun, 72 anni, sbircia timidamente dal suo ingombrante cappuccio e aferma che, sebbene ami l’Islanda per la pulizia, la bellezza, le sorgenti geotermiche, i vulcani e i ghiacciai, non può credere che il suo paese sia il luogo ideale per le donne. Perché gli stipendi delle donne “sono inferiori a quelli degli uomini”.
Il tema è molto sentito, soprattutto dopo una recente iniziativa di Vr, il sindacato dei commercianti e degli impiegati. Per sensibilizzare la popolazione sulle disparità tra i sessi – le donne islandesi ricevono uno stipendio mediamente inferiore del 10 per cento rispetto agli uomini che fanno lo stesso lavoro – a settembre Vr ha lanciato nei principali negozi della capitale una campagna di sconti del 10 per cento, riservati alle donne. Berglind, una giovane commessa con un lungo piercing di metallo al naso, sostiene che sarebbe un bel passo avanti se le adolescenti islandesi imparassero a scuola a contrattare lo stipendio con i datori di lavoro, fino all’ultimo centesimo.
Erla, un’avvocata avvolta in un pesante impermeabile rosso, sostiene che potrà sempre contare sul supporto delle sue compagne. È con questo spirito che l’anno scorso ha partecipato a un corteo di protesta contro la discriminazione salariale e la violenza sessuale. “Credo di guadagnare il giusto”, dice, “ma ho partecipato comunque alla manifestazione perché volevo sostenere la lotta delle altre donne. Se la nostra società si è evoluta, è perché i cittadini si sono battuti per i diritti delle donne”. Agli occhi di un osservatore straniero il potere del movimento femminista islandese è sorprendente. Dopo la seconda guerra mondiale l’Islanda era il paese più povero d’Europa. Poi, dopo il boom economico, alla fine degli anni sessanta una nuova generazione di donne, ormai istruite, cominciò a denunciare la discriminazione salariale di cui era vittima. Anche le donne che non lavoravano si sentivano escluse e non valorizzate.
Così, quasi quarant’anni fa, il gruppo femminista Calze rosse indisse uno “sciopero delle donne” di ventiquattr’ore. Il 24 ottobre 1975 il 90 per cento delle donne islandesi incrociò le braccia, a casa e sul lavoro. Circa 25mila donne si radunarono a Reykjavik per discutere, confrontarsi e stare insieme. All’epoca l’intera popolazione islandese non arrivava a 220mila abitanti. Thorunn Sveinbjarnardóttir ha 45 anni ed è stata ministra dell’ambiente dal 2007 al 2009. Nel 1975 aveva solo dieci anni, ma partecipò allo sciopero con la madre. “Di quel giorno ricordo che ero circondata da una grande quantità di donne, tutte felici”, racconta. “Fu una grande lezione per la mia generazione. Il segreto di quella manifestazione fu la capacità di attirare donne di ogni estrazione sociale e politica. Questo dettaglio fu importantissimo. Fu un giorno meraviglioso”.
In Islanda la capacità del movimento femminista di mobilitare donne di ogni appartenenza politica o sociale è evidente ancora oggi. La manifestazione del 2010 ha ricordato lo sciopero del 1975. Nonostante le pessime previsioni meteorologiche, cinquantamila donne, cioè un terzo del totale del paese, si sono riversate nelle strade di Reykjavik, avvolte in giubbotti imbottiti o maglioni tradizionali, con i capelli e le sciarpe mossi dal vento. Nelle foto si vede perfino una donna vestita da vichinga. Qualcuna ride, molte impugnano cartelli. Tutte sembrano molto determinate.
Contro i tabù
Alla periferia di Reykjavik trascorro un pomeriggio con Sigríður Magnúsdóttir, Andrea Halldórsdóttir ed Eva Gunnbjornsdóttir. Quando gli chiedo cosa le fa arrabbiare di più, Eva, che ha 31 e si sta per laureare, punta il dito contro la disparità salariale. Sigríður e Andrea, invece, discutono animatamente del problema della violenza sessuale.
“Se potessi cambiare il mondo”, dice Sigríður, che ha 35 anni e fa le pulizie, “eliminerei gli abusi sessuali su donne e bambini. Così gli uomini si azzuferebbero tra di loro”. Andrea, insegnante di musica di 27 anni, sostiene che anche nei casi più gravi le pene per gli aggressori sono scandalosamente lievi. Decido allora di affrontare l’argomento con Guðrún Jónsdóttir, veterana del movimento femminista e oggi impegnata con Stígamót, un’associazione che offre assistenza alle vittime di violenza sessuale. “Sulla carta l’Islanda è il paradiso delle donne”, spiega, “ma in pratica le cose non stanno proprio così”.
Ogni anno la sua associazione e il reparto dell’ospedale di Reykjavik che si occupa delle vittime di violenza si prendono cura di 250 donne, ma “le condanne penali per stupro si contano sulle dita di una mano”. Guðrún spiega che uno dei problemi più diicili da superare è la mentalità “dei giudici, degli avvocati, della gente comune e perino delle donne che si rivolgono a noi, assalite dalla vergogna e dal senso di colpa”. L’anno scorso il capo del reparto di polizia che si occupa dei crimini sessuali, Björgvin Björgvinsson, si è dimesso dopo aver dichiarato in un’intervista che spesso le donne sono violentate dopo aver abusato di alcol o droghe, e che quindi la violenza è in parte colpa loro.
Nel novembre 2010 è stato rimesso al suo posto. Anche l’Islanda, quindi, ha i suoi problemi. Ma l’opinione pubblica e la politica stanno cercando di risolverli. La premier mi spiega che c’è “un movimento femminista molto forte, che è riuscito a sensibilizzare le istituzioni sul tema della parità sessuale. Non è un caso se oggi nessun leader politico può ignorare questi problemi”. Nei due anni e mezzo al potere il governo attuale, formato da socialdemocratici e verdi, non ha mai fatto mancare il suo impegno. Ha stabilito che la compravendita di sesso è un reato, ha approvato nuove leggi contro lo sfruttamento della prostituzione e ha vietato gli strip club. Per quanto riguarda la lotta alla violenza domestica, invece, l’Islanda ha adottato il modello austriaco: chi compie un abuso deve abbandonare la casa in cui vive.
Nel 2013, inoltre, entrerà in vigore una legge che obbligherà le imprese ad avere consigli di amministrazione con almeno il 40 per cento di donne. L’Islanda ha una lunga storia di donne in politica. Vigdís Finnbogadóttir è stata la prima donna al mondo a essere eletta capo dello stato, carica che ha ricoperto dal 1980 al 1996. All’inizio del suo mandato le deputate al parlamento islandese erano solo il 5 per cento. Poi, nel 1983, è nata l’Alleanza delle donne, un partito femminista che ha ottenuto il suo miglior risultato nel 1987, conquistando 6 seggi su 63. Una delle sue militanti, Thorunn, racconta di aver passato gli anni ottanta “a discutere di stupri, violenze domestiche, leggi per la protezione delle donne e dei bambini: tutti temi tabù all’epoca e oggi invece argomenti discussi pubblicamente. C’è voluto molto coraggio per raggiungere questo risultato”.
Ingibjörg Sólrún Gísladóttir, che ha fatto parte dell’Alleanza delle donne per più di dieci anni, nel 1994 è diventata sindaco di Reykjavik, un incarico che ha mantenuto fino al 2003. Nel 2009, dopo la crisi finanziaria, il paese ha cominciato a mettere in discussione i valori che l’avevano caratterizzato negli ultimi anni, tra cui il gusto del rischio e l’arroganza, considerati spesso prerogative maschili.
E a far ripartire il paese sono state le donne.
Le due banche responsabili del crac, Landsbanki e Glitnir, sono state affidate a due donne, e per guidare il paese è stata scelta Jóhanna Sigurðardóttir. Chiedo a Guðrún Jónsdóttir se pensa che Jóhanna sia una femminista: “Forse inizialmente non lo era. Ma ha mostrato grande rispetto nei confronti del movimento e ci ha appoggiato senza esitazioni. Possiamo dire che è una di noi”.
In Islanda, tuttavia, non sono solo le donne a sostenere il movimento femminista. In uno dei suoi ultimi numeri, il quindicinale in inglese Reykjavik Grapevine ha pubblicato un’intervista al sindaco della capitale, Jón Gnarr. Gnarr, un comico, fa parte di un movimento politico dal nome accattivante – Best party – composto prevalentemente da artisti e attori che si definiscono “anarcosurrealisti”. L’anno scorso hanno conquistato Reykjavik intercettando il voto di protesta degli islandesi. Quando però si parla di donne, Gnarr si fa serio. “Una società sana deve essere costrui ta in maniera uguale sulle forze degli uomini e delle donne, mentre la nostra cultura è ancora troppo maschilista. Il mio partito proverà a risolvere questo problema”.
Una rete di sostegno
Jóhanna Sigurðardóttir è la prima leader di governo al mondo dichiaratamente omosessuale, mentre Vigdís, che pare sia ancora popolarissima, è stata una ragazza madre: una condizione non insolita in Islanda. Katrín, invece, ha avuto il suo primo figlio a 23 anni e lo ha cresciuto da sola per altri undici, senza dover rinunciare alla carriera. Qui i genitori sanno di poter contare sull’aiuto della comunità anche nell’assistenza ai bambini, e la maternità non è inconciliabile con lo studio o la carriera. “In Islanda non siamo costrette a organizzare la vita secondo il classico percorso ‘università-lavoro- figli’”, sostiene Thorunn.
Andrea, invece, racconta di aver avuto il primo figlio a 19 anni e di averlo cresciuto da sola. Quando andava a scuola lo portava con sé, e “i professori si prendevano cura di lui mentre io studiavo”, ricorda. Joanna Dominiczak, insegnante e presidente dell’Associazione donne multiculturali, spiega che “in Islanda un figlio è considerato un dono, e nessuno si preoccupa di quanti figli potrà riuscire a mantenere”. Il paese rilascia congedi parentali molto generosi alla nascita di ogni bambino. “La madre ha diritto a tre mesi di congedo non trasferibili”, dice Joanna, “e il padre lo stesso. Poi i genitori hanno altri tre mesi che possono dividersi a seconda delle necessità”.
Questo sistema riconosce uguale importanza ai due genitori in dalla nascita del bambino ed elimina la discriminazione, ancora presente in molte società, che rende più diicile per le donne in età fertile trovare un impiego. Sigríður, Eva e Andrea sono ragazze madri. Anche loro di tanto in tanto si lamentano, ma sono soddisfatte degli asili e delle scuole che frequentano i loro figli. Annadís Rudolfsdóttir, responsabile del programma di formazione sulla parità sessuale dell’università di Reykjavik, di recente ha vissuto per un periodo in Gran Bretagna e spiega che è molto più facile essere madre in Islanda. “In Gran Bretagna gli asili costano una fortuna”, dice, “mentre qui una madre single può mandare un bambino all’asilo per otto ore al giorno al costo di 80 euro al mese. Per le coppie la spesa è di 135 euro. Potete immaginare quanto sia più facile essere genitore con un aiuto del genere”.
Le donne islandesi sembrano avere particolare fiducia in se stesse. Si dice che la loro indipendenza si sia sviluppata nel corso dei secoli: mentre gli uomini erano in mare, a loro toccava occuparsi di tutto il resto. È diicile dire quanta verità ci sia in questa ricostruzione, ma certo le islandesi sembrano essere dotate di un’innata solidità di carattere. Quando chiedo a una ragazza in una paninoteca se pensa che l’Islanda sia un paese femminista, mi risponde che parlando con le sue colleghe è giunta a una semplice conclusione: “Alle donne islandesi è meglio non rompere le palle”, dice, strizzando gli occhi dietro i suoi occhiali vintage color rosa.
Se poi si chiede alle islandesi quale sia l’aspetto migliore della vita delle donne in questo paese, la risposta più frequente ha sempre a che fare con una parola: libertà. “Possiamo fare quello che vogliamo: imparare a pilotare un aereo, diventare poliziotte o qualsiasi altra cosa”, dice Andrea. Poco dopo, in una profumeria mi imbatto nella prima guardacoste del paese. “Il nostro premier è una donna, il nostro presidente era una donna. Qui siamo cresciute con la consapevolezza che tutto è possibile”. Katrín è della stessa idea. “Come donna, ho sempre saputo di avere questa libertà, di poter fare delle scelte, per me stessa e per la mia famiglia, senza dover rendere conto a nessuno. Nello studio come nel lavoro, qui esiste un’ampia rete di sostegno per le donne. Si può dire che siamo una nazione molto progressista”. Katrín guarda fuori dalla finestra, mentre la pioggia continua a battere sui vetri: “Amo questo tempo”. E sospira felice.
da Internazionale 05.11.11