Questo governo ha fatto ciò che non era mai stato fatto in passato». Era il 2 novembre del 2010. Esattamente un anno fa Stefania Prestigiacomo annunciava con questa rivendicazione il decollo del piano straordinario per combattere il dissesto idrogeologico. Due miliardi, per mettere in sicurezza un paese martoriato dall’abusivismo e dall’incuria sul quale, insisteva il ministro dell’Ambiente, «le cosiddette bombe d’acqua (come quella che ha colpito venerdì Genova, ndr) aprono nuovi fronti di pericolo».
Neanche sei mesi dopo, alla vigilia delle elezioni regionali in Campania, Regione da oltre dieci anni in mano al centrosinistra, il capo di un governo «come mai impegnato nella lotta ai dissesti» prometteva che avrebbe bloccato per decreto le demolizioni di migliaia di costruzioni abusive a Ischia. Lo stesso Silvio Berlusconi che il 24 gennaio del 2003 aveva proclamato fermamente: «Confermiamo la lotta contro l’abusivismo». Frase pronunciata, beninteso, poche settimane dopo che il suo governo aveva varato il terzo condono edilizio della storia italiana. Una sanatoria smentita fino a qualche giorno prima dal Cavaliere in persona con queste parole: «Il condono edilizio è una ipotesi sconosciuta di cui il governo non ha mai ipotizzato l’esistenza».
Impossibile, alla luce di tanta coerenza, stupirsi che il decollo di quel piano straordinario annunciato da Stefania Prestigiacomo non sia mai concretamente avvenuto, come qualche giorno fa, dopo l’alluvione delle Cinque Terre, proprio il ministro dell’Ambiente ha dovuto ammettere. I 2 miliardi e 21 milioni di euro finanziati già da due anni in parte con fondi nazionali (un miliardo 92 milioni) e in parte con risorse regionali (928 milioni) sono fermi. I cantieri, denuncia una nota dell’Associazione dei costruttori, «non sono mai stati avviati». Più di 300 milioni per la Sicilia, 220 ciascuno per Calabria e Campania, 210 per la Puglia, 224 per la Lombardia… Senza poi considerare che i lavori rischiano di essere definanziati come conseguenza della manovra economica.
Non bastasse, negli ultimi quattro anni gli stanziamenti ordinari del ministero dell’Ambiente per tenere sotto controllo il rischio idrogeologico sono stati quasi azzerati: da 550,6 milioni del 2008 a 408 nel 2009 per scendere a 147 nel 2010 e a 83,9 milioni quest’anno. Un taglio, crudele e penoso, dell’84,8%, perpetrato senza incontrare opposizione. E questo la dice lunga.
Indifferenza dello Stato centrale e delle Regioni: quando non complicità negli stupri al territorio. Ignavia delle amministrazioni comunali, responsabili di piani regolatori con la previsione di interventi d’espansione indiscriminati e lucrose (per molti costruttori amici dei politici) variazioni di destinazione d’uso: quando non talvolta oggettivamente fiancheggiatori dell’abusivismo. Aggiungiamoci l’abolizione dell’Ici prima casa, che ha incentivato i sindaci a distribuire concessioni edilizie a valanga per le seconde case, allo scopo di fare cassa, e il quadro è quasi completo. Quasi, perché poi c’è la raffica dei condoni, grazie ai quali sono stati regolarizzati milioni di metri cubi edificati in aree franose, negli alvei dei corsi d’acqua, senza il rispetto delle minime norme costruttive e urbanistiche. Sanatorie devastanti, costate più di quanto abbiano reso alle casse pubbliche, avendo costretto i Comuni a sostenere pesantissimi oneri di urbanizzazione. Un immenso mucchio di spazzatura cementizia che si è negli anni aggiunto alla spazzatura edilizia «legale», metà di quanto costruito in Italia a partire dal secondo dopoguerra, che secondo l’urbanista Aldo Loris Rossi dovrebbe essere rottamata quanto prima.
Le ragioni e le responsabilità per cui si è arrivati a questo punto sono dunque tante. Il fatto è che stiamo assistendo a un consumo di territorio assolutamente sconsiderato, senza però che in questo diluvio di laterizi si realizzino le infrastrutture che ci sono necessarie. Come denuncia Salvatore Settis nel suo libro Paesaggio, Costituzione, Cemento, il nostro è l’ultimo fra i Paesi europei per sviluppo demografico, mentre è invece in testa alla graduatoria dei cementificatori. Ogni giorno si volatilizzano 161 ettari, una superficie pari a quella di 251 campi di calcio. L’Italia ha già sacrificato più del 7% del proprio territorio: un’area grande come la Toscana. Con punte massime in Lombardia, dove la superficie non più naturale supera il 14%. Ma è un valore assolutamente comparabile con il 6,3% della Liguria, regione praticamente tutta montuosa. Inutile dire che il rischio di dissesto va di pari passo. E poi ci meravigliamo che a Genova sia accaduto questo disastro.
Inaccettabile il bilancio degli ultimi due anni, quando otto regioni duramente colpite dall’emergenza idrogeologica hanno pagato un tributo di 69 cadaveri. E la Liguria è in cima a questa lista sconcertante.
Soltanto nel 2010 tale sfacelo è costato alla Protezione civile 645 milioni di euro. Di questi, più di 100 per le città e i paesi liguri. In un’Italia nella quale l’82% dei Comuni (ben 6.633 su 8.101) corre il pericolo di dissesto, e soltanto il 6% di questi ha deciso di spostare le abitazioni dalle aree dove non dovevano essere costruite, come dicono i dati ministeriali riportati nell’indagine «Ecosistema rischio 2010» di Legambiente, quello della Liguria è fra i territori maggiormente rischiosi. E non soltanto a causa di una morfologia particolarissima. I Comuni liguri nella lista nera sono 232, il 99% del totale. È messa appena peggio soltanto la Calabria, insieme a Provincia di Trento, Valle D’Aosta, Molise, Basilicata, Umbria.
Il bello è che tutto questo era ampiamente noto, ben prima delle ultime tragedie. E fa decisamente male rileggere oggi che cosa scriveva il grande Indro Montanelli sul Corriere l’8 aprile 2001, pochi mesi prima di lasciarci, rispondendo al grido di dolore di un lettore che chiedeva di salvare la Riviera ligure: «Nella distruzione della vostra Riviera è responsabile tutta la vostra classe dirigente, non soltanto quella politica. Ne sono responsabili quella imprenditoriale, quella finanziaria, quella mercantile, quella alberghiera. Tutti. Tutti, anche il cosiddetto uomo della strada: tutti abbacinati dall’irruzione dei cantieri, fabbriche di miliardi e di posti di lavoro; dalla speculazione edilizia che prenderà d’assalto il promontorio dando agl’indigeni la grande occasione di arricchirsi con un orto. Che pacchia! Una pacchia che durerà sei, sette, dieci anni, per poi ridurre questo angolo d’immeritato paradiso alla solita colata di cemento e di asfalto».
Il Corriere della Sera 06.11.11