«Mi sono trovato finalmente a pensare, questa settimana, che il valore della mia pensione potrebbe dipendere da Silvio Berlusconi». Lo scrive James Stewart sul New York Times.Così il nostro presidente del Consiglio è arrivato ad essere promosso dal ruolo di zimbello della stampa internazionale a quello di possibile innesco di una tragica crisi finanziaria mondiale. Il governo dell´attuale primo ministro, nei quasi dieci anni nei quali è stato al potere, avrebbe potuto rendersi conto che il debito pubblico pregresso del nostro Paese era un autentico barile di polvere pronto a esplodere quando le condizioni finanziarie internazionali lo avessero innescato. Avrebbe dunque dovuto agire in maniera appropriata per ridurlo e metterlo in sicurezza. Al contrario, lo ha addirittura fatto crescere, con le proprie improvvide politiche, vanificando la strategia di rientro che i ministri del centrosinistra, in particolare Visco, hanno tentato quando sono stati al governo.
Altrettanto noto al nostro primo ministro e al suo governo era, come lo era ai mercati, che i due anni orribili, dal punto di vista della concentrazione dei rimborsi e delle cedole del debito pubblico italiano, sarebbero stati il 2011 e il 2012. Ma la conoscenza di tali scadenze non sembra aver agitato i sonni dei nostri governanti, inducendoli a una politica economica che non spaventasse i nostri partner europei e i mercati internazionali. Essi hanno invece atteso senza una cura al mondo che la tempesta si addensasse sul loro capo, mentre, al contrario, gli altri Paesi deboli dell´Europa si affannavano a mostrare, col comportamento dei loro governanti e della intera loro classe politica, di voler affrontare le proprie difficoltà finanziarie senza tergiversamenti e furbizie. Così la Spagna, che ha problemi più gravi dei nostri, è riuscita a guadagnarsi uno spread e un trattamento, da parte dei mercati e dei governi partner, meno sfavorevoli dei nostri. Il nostro premier è stato per decenni un maestro della comunicazione, con la quale è divenuto straricco. Quel che il comportamento inane suo e del suo governo comunicava al mondo lo sapeva benissimo. Eppure ha continuato a suonare la lira mentre Roma bruciava.
Messo infine all´angolo dal duo Merkel-Sarkozy, che è apparso esso stesso abbastanza atterrito dagli avvenimenti, e spesso brancolante nel buio, il nostro premier ha stilato un elenco di promesse di cose da fare e lo ha mandato a Bruxelles. Glielo hanno rispedito come insufficiente e glielo ha rimandato con l´aggiunta di un paio di misure che evocano la “faccia feroce” dell´esercito di Franceschiello.
Quel che sarebbe accaduto alla riapertura dei mercati, dopo il week end, quando gli operatori finanziari di tutto il mondo avevano avuto il tempo per rendersi conto della mancanza di sostanza delle promesse italiane, non occorreva grande fantasia per prevederlo. Infatti, si è verificato. Ora abbiamo percorso, sulla strada del rialzo dei tassi, quasi tutta la strada che porta al punto di non ritorno, stimato al 7%. Questi ultimi cento punti base che ci separano da esso non sono un percorso lineare. Ognuno di essi porta ad una accelerazione della velocità con la quale ci avviciniamo al precipizio. In altri Paesi, i governi in carica hanno, assai prima di raggiungere questi livelli di allarme, rimesso il mandato. Ma, come notano gli esterrefatti osservatori stranieri, qui da noi si afferma con la massima tranquillità che bisognerà aspettare gennaio, quando i membri del nostro Parlamento saranno certi di essersi assicurata la pensione, per poter pensare a una messa in minoranza del governo, non più sanabile da un voto di fiducia che ricompatti ancora una volta il gregge.
E nel frattempo? L´Italia non è mai stata al centro di una grande crisi finanziaria internazionale, in tutti i 150 della sua storia unitaria. Questa volta rischiamo di trovarci nello scomodo ruolo di protagonisti. Né siamo mai stati messi sotto controllo finanziario internazionale. L´unica volta che ci fu questo rischio fummo investiti dal turbine finanziario internazionale mentre ci dibattevamo nella nerissima stagione della Banca Romana e delle faide tra Crispi e Giolitti, nei primi anni novanta del secolo XIX. La Grecia dichiarò la bancarotta e noi riuscimmo ad eludere questo affronto per un sussulto di orgoglio, che portò Sidney Sonnino e Luigi Luzzatti a prendere il timone, proprio per evitare, come disse Sonnino, «che l´Italia faccia la fine della Grecia». Da quella sterzata verso la salvezza nacque la Banca d´Italia, ma anche una politica economica talmente dura da provocare, nel 1898, una rivolta operaia sedata a cannonate da un governo capeggiato da un generale. Poi tornò il sole, in tutto il mondo, e andammo a dieci anni di sviluppo economico accelerato e di risanamento finanziario, il celebre decennio giolittiano. Se ci basta, possiamo consolarci con questa speranza nata dal ricordo di tempi altrettanto grami. Ma dove sono oggi i Sonnino e i Luzzatti?
La Repubblica 01.11.11