Zygmunt Bauman guarda al nuovo movimento internazionale e spiega come la protesta sia diversa in ciascun Paese perché è diverso il muro che vuole abbattere per costruire un mondo più giusto di quello attuale Abbiamo incontrato Zygmunt Bauman a Roma, in occasione della sua lectio magistralis su Quali sono i problemi sociali oggi?, nell’ambito della Terza edizione del Salone dell’editoria sociale di Roma.
Nei suoi testi cita spesso una frase di Cornelius Castoriadis: «Ciò che non va nella società in cui viviamo è che ha smesso di mettersi in discussione». In un mondo in cui le vecchie coordinate della modernità solida stanno scomparendo, come individuare le domande più pertinenti e i problemi sociali a cui rispondere con più urgenza?
«Viviamo in un tempo di vuoto (simile all’“interregnum” dell’antica Roma), un periodo in cui i vecchi metodi con cui facevamo andare avanti le cose risultano inefficaci, mentre non ne sono stati ancora inventati di nuovi. È un periodo di cambiamento, non di transizione, perché “transizione” implica un passaggio da un “qui” a un “lì”, e sebbene conosciamo piuttosto bene il “qui” da cui cerchiamo di fuggire non abbiamo idea del “lì” dove vorremmo arrivare. Definire quali fossero i “problemi sociali” su cui intervenire poteva essere un compito difficile ma praticabile al tempo in cui i nostri antenati discutevano sul cosa ci fosse da fare, ma erano piuttosto sicuri sul chi lo avrebbe fatto, ovvero lo stato, un’istituzione potente, dotata di tutto ciò che occorresse per farlo: il potere (la capacità di fare le cose) e la politica (la capacità di decidere quali cose andassero fatte e quali evitate). Oggi invece tutti i poteri che determinano la nostra condizione – la finanza, gli investimenti di capitale, il commercio – sono di natura globale, extraterritoriale, molto al di là della portata di tutti gli organismi politici esistenti; allo stesso tempo, la politica rimane ostinatamente locale, confinata al territorio di un singolo stato. Oggi la domanda vitale è “chi lo farà”, nel caso dovessimo decidere ciò che c’è da fare».
Gli «indignati» sostengono che a «fare le cose» non debbano più essere quelli che le hanno fatte finora. Per qualcuno, questo movimento planetario dimostra il collasso della democrazia rappresentativa, della comunità politica territorialmente definita; per altri, si tratta dell’ennesimo movimento effimero. Lei cosa ne pensa? «I manifestanti di Manhattan, così come i giovani e meno giovani del movimiento los indignados, sono privi di leader, provengono da ogni tipo di vite, razze, religioni e campi politici, sono uniti soltanto dal rifiuto di lasciare che le cose procedano come ora. Ognuno di loro ha in mente un’unica barriera o muro da mandare in frantumi o distruggere. Le barriere variano da Paese a Paese, ma ciascuna è ritenuta quella il cui smantellamento è destinato a mettere fine a tutte le sofferenze. Sulla forma che dovranno prendere le cose, ci si interrogherà solo in seguito. Combinare un unico obiettivo di demolizione con un’immagine vaga del mondo che verrà è la forza di questi manifestanti, ma anche la loro debolezza. Sono abili demolitori, ma devono ancora dimostrare di essere abili costruttori. In ogni caso, se i due giovincelli di Rhineland, Marx ed Engels, si sedessero ora a redigere il loro ormai bicentenario Manifesto, potrebbero inaugurarlo con l’osservazione che “uno spettro si aggira sul pianeta: lo spettro dell’indignazione”».
L’indignazione è in primo luogo il frutto della crisi economico-finanziaria. In «Vite che non possiamo permetterci», scrive che la crisi dimostra che «il capitalismo dà il meglio di sé non quando cerca (se cerca) di risolvere i problemi, ma quando li crea», e che «non può essere contemporaneamente sia coerente che completo». Intende dire che il capitalismo è un sistema parassitario?
«Cento anni fa, Rosa Luxemburg ha compreso il segreto dell’inquietante abilità del capitalismo di risorgere ripetutamente dalle ceneri; una capacità che si lascia dietro una scia di devastazione: la storia del capitalismo è segnata dalle tombe degli organismi viventi la cui linfa vitale è stata succhiata fino all’esaurimento. La Luxemburg confinava però la gamma degli organismi allineati per le imminenti visite del parassita alle “economie pre-capitalistiche”, il cui numero era limitato e progressivamente in diminuzione per la continua espansione imperialista. Ragionando secondo queste coordinate, la Luxemburg non poteva far altro che anticipare i limiti naturali alla possibile durata del sistema capitalista: una volta che tutte le “terre vergini” del globo fossero state conquistate, l’assenza di nuove terre sfruttabili avrebbe portato il sistema al collasso. La profezia della Luxemburg si sta per avverare? Non lo credo. Nell’ultimo mezzo secolo, il capitalismo ha imparato l’arte prima sconosciuta di produrre sempre nuove “terre vergini”. Questa nuova arte, resa possibile dal passaggio dalla “società di produttori” alla “società di consumatori”, fa sì che il profitto e l’accumulazione consistano soprattutto nella progressiva mercificazione delle funzioni della vita, nel sostituire il desiderio al bisogno come volano dell’economia. La crisi attuale deriva dall’esaurimento di una “terra vergine” artificialmente creata, quella costruita sulla “cultura delle carte di credito”. In linea di massima,lo sfruttamento di questa particolare “terra vergine” è ora finito, e ai politici è stato lasciato il compito di ripulire i detriti lasciati dal banchetto dei banchieri». Quali sono le conseguenze del passaggio dalla società solida dei produttori a quella liquida dei consumatori? «In una società di produttori i profitti venivano generati dall’incontro tra il capitale e il lavoro, e in un certo senso il capitalismo era un fattore di risentimento collettivo. Nella società dei produttori, i profitti vengono dall’incontro tra la merce e il cliente; si tratta di un evento solitario, che promuove l’interesse personale piuttosto che la solidarietà e l’unione. Formati socialmente innanzitutto come consumatori e solo in secondo luogo come produttori, siamo addestrati a modellare le relazioni interumane sul modello della relazione del consumatore con i beni di consumo. Ciò porta alla fragilità e alla temporaneità dei legami interumani. Inoltre, per raggiungere il rango di consumatori, ognuno di noi deve trattare se stesso come una merce vendibile, il che intensifica la continua frammentazione e atomizzazione della società. Per finire, segue la fascinazione per il Pil (che misura soprattutto le attività di consumo): la società dei consumatori non conosce altro modo per “risolvere i problemi” e affrontare i problemi sociali che incoraggiare la “crescita economica”, ingrandendo all’infinito la pagnotta da affettare piuttosto che dividerla giudiziosamente ed equamente». L’idea dell’equivalenza tra crescita economica e giustizia sociale, basata sull’assunto che il progresso e lo sviluppo potessero risolvere di per sè la questione della disuguaglianza sociale, ha caratterizzato tutto il Novecento. La crisi è anche l’occasione per mettere in discussione l’idea della crescita e del progresso come fini in sé?
«I crescenti livelli di opulenza si traducono in crescenti livelli di consumo; dopotutto, l’arricchimento è un valore che merita di essere ambito fino a quando aiuta a migliorare la qualità della vita, che nel dialetto della congregazione planetaria della Chiesa della Crescita Economica significa “consuma di più”. Per la fede di questa Chiesta fondamentalista, tutte le strade verso la redenzione, la salvazione, la grazia divina e secolare, la felicità immeditata ed eterna, passano attraverso i negozi. E quanto più affollati sono gli scaffali dei negozi in attesa dei cercatori di felicità, tanto più vuota è la Terra. Ciò che è passato sotto il più assordante silenzio, è l’avvertimento di Tim Jackson nel suo libro di ormai due anni fa, Prosperità senza crescita (ed. italiana Edizioni Ambiente 2011, ndr): alla fine di questo secolo “i nostri figli e nipoti avranno a che fare con clima ostile, risorse esaurite, distruzione degli habitat, decimazione delle specie, scarsità di cibo, migrazione di massa e guerra quasi inevitabile”. Forse sta per emergere la verità di una visione alternativa della storia e del progresso: anziché una corsa in avanti, irreversibile, che non prevede ritirate, rincorrere la felicità attraverso i negozi è solo una deviazione eccezionale, intrinsecamente e inevitabilmente temporanea? La giuria non si è ancora espressa. Ma è tempo che emetta un verdetto. Più indugia, più è verosimile che sarà costretta a uscire di corsa dalla sala di consiglio. Per mancanza di cibo».
L’Unità 30.10.11