In una democrazia che funziona, in condizioni normali, i programmi di governo si sottopongono agli elettori, non alle banche e nemmeno ai rappresentanti di altre istituzioni. Ma l’Italia, lo sappiamo, non è in condizioni normali, e dell’aiuto della Bce dunque delle autorità e dei partner europei ha un disperato bisogno.
Il governo che ha la prima responsabilità di avere portato l’Italia a questo punto, ovviamente, non ha la forza, la credibilità e neppure gli argomenti per garantire l’interesse nazionale in un momento tanto difficile. Ma l’idea stessa di una lettera di impegni per profonde riforme economiche firmata dal presidente del Consiglio e non sottoscritta nemmeno dal suo ministro dell’Economia, che anzi lascia intendere su tutti i giornali di non condividerla affatto, rappresenta un salto di qualità.
Con quella lettera il governo italiano ha compiuto infatti una scelta precisa, e niente affatto scontata. Le strade di Silvio Berlusconi e di Giulio Tremonti non si sono divise attorno a una questione da poco, ma sul cuore della strategia di politica economica e sociale del centrodestra di oggi, e soprattutto di domani. Da questo punto di vista, sarebbe sbagliato sottovalutare il fatto che si tratti in larga misura di un «libro dei sogni», com’è stato chiamato sulla stampa (noi diremmo piuttosto un libro degli incubi). Proprio questa caratteristica ne svela anzi il reale significato, che non è quello di un programma di governo, ma di un programma elettorale. Per non dire un manifesto ideologico. Illuminante, in questo senso, è il modo in cui ne ha dato conto ieri il Giornale di Alessandro Sallusti, che non solo ha pubblicato il testo integrale della lettera nelle prime due pagine del quotidiano, ma ci ha aperto la prima pagina con il titolo: «Ecco l’Italia di domani».
Il bivio davanti al quale sembrano essersi definitivamente separate le strade del premier e del suo ministro dell’Economia non è dunque una questione minore, tanto meno una scelta «tecnica». È invece esattamente questo: l’idea dell’Italia di domani che si ha in mente e che si vuole realizzare.
Giulio Tremonti ha sostenuto in questi anni molte posizioni. Si è scagliato contro lo statalismo e contro il mercatismo. Non ha esitato a tessere pubblicamente l’elogio del posto fisso come base della stabilità sociale italiana, ma nemmeno ha esitato a scagliarsi contro l’articolo 41 della Costituzione che avrebbe ingessato la libertà d’impresa nel nostro Paese.
Tuttavia, nello scontro che dentro il governo lo ha opposto ai più fanatici fautori del neoliberismo all’italiana, a cominciare da Renato Brunetta, la posizione di Tremonti, in questi anni, non è cambiata. Come dimostra anche il suo rifiuto di firmare la lettera inviata all’Ue, scritta in buona misura proprio da Brunetta, in collaborazione con Paolo Romani e con Maurizio Sacconi.
Silvio Berlusconi ha scelto dunque la sua linea e la sua squadra. Libertà di licenziamento, dismissioni di quel poco che resta dell’industria pubblica (che vuol dire, con l’aria che tira, quanto resta dell’industria italiana tout court, o poco meno), colpire gli statali, risparmiare rendite e grandi ricchezze, ignorare gli evasori.
Come è evidente a chiunque abbia la minima padronanza non diciamo dell’economia o della politica, ma della lingua italiana, una simile strategia si può definire in tutti i modi, meno che moderata. Al contrario, la strada scelta è quella dell’estremismo ideologico e della radicalizzazione sociale, nel tentativo di spaccare lo stesso fronte degli imprenditori. E con la non segreta speranza di mettere in difficoltà anche Emma Marcegaglia, colpevole di avere raggiunto un’intesa con tutti i sindacati sulla sterilizzazione dell’articolo 8 del decreto di ferragosto (con cui il governo aveva già provato a introdurre licenziamenti più facili). Agli occhi di simili estremisti, persino la Confindustria è ormai troppo «a sinistra», colpevole com’è di privilegiare quella coesione sociale che il governo degli irresponsabili appare deciso in tutti i modi a sfasciare. Altro che moderati. L’impressione è che l’eredità del berlusconismo sia proprio questa. La partita in corso dentro la maggioranza si gioca tutta qui. Il modello del Berlusconi grande federatore dei moderati nel ’94 non appare replicabile. La divisione tra una destra radical-liberista all’americana (modello Tea Party) e la tradizione dei moderati italiani appare sempre più come una divisione strategica.
L’Unità 28.10.11