«Improvvisamente tutto ciò che sembrava passato è tornato attuale», scriveva nel 1999, ben 13 anni orsono, Paul Krugman, uno dei più chiaroveggenti economisti americani, chiedendosi se si stava andando verso un nuovo 1929. La sua risposta era affermativa, accompagnata da proposte d´intervento preventivo che non furono ascoltate.
L´analisi partiva dalla crisi asiatica e che allora aveva colpito i paesi emergenti di quel Continente, ma anche il Giappone. Taluni, tra i primi George Soros, la lessero come un podromo della crisi finanziaria mondiale, una intuizione giusta ma solo parziale, poiché, scriveva Krugman, «questi eventi sono andati ben oltre i mercati finanziari in sé stessi; anche quando, e se, i mercati finanziari si calmeranno, i reali effetti della crisi – i danni alla crescita, all´occupazione e al tenore di vita – si protrarranno a lungo». Oggi gran parte della previsione si è purtroppo avverata. L´epicentro della deflagrazione è partito, questa volta, da Wall Street e si è esteso, come negli anni Trenta, con effetti sempre più allarmanti, all´Europa. Ormai siamo nel bel mezzo della tempesta, l´insolvibilità dei debiti sovrani e le incerte sorti dell´euro segnano gli snodi nevralgici dell´accidentato decorso. La vorticosa dinamica del fenomeno, il terrore nello scoprire l´impeto da valanga del debito pubblico non più controllabile, l´imprevedibilità degli esiti di fronte alle svolte che di volta in volta si producono, il bivio dove si blocca la scelta tra rinchiudersi nelle fragili difese intergovernative o accollarsi le dimensioni crescenti dell´unica via di salvezza intravista, tutto questo comincia ad essere percepito. Purtuttavia la consapevolezza è troppo reticente e incerta per provocare un grande moto politico di riscossa, armato di risposte forti perché accettate da opinioni pubbliche, non tentate dal populismo distruttivo. Questo, per contro, può finire per avere la meglio.
La confusione e i dubbi dominano gli animi dei governanti e dei governati ma non ne esce un´azione convincente e univoca. Che si stia sospesi sull´orlo di un baratro è un incubo, smorzato da una suadente rimozione scaramantica. Non si arriva sempre a vedere i fenomeni nel loro insieme e così i moti degli “Indignati”, che a Roma hanno toccato il culmine, vengono percepiti a se stanti e non quale riflesso immediato di chi, come i giovani, sente realmente stringersi al collo il cappio di una lunga recessione e grida, come può, il suo SOS. Non basta condannare le frange che mimano la lotta armata anche se è importante che questa condanna venga condivisa largamente, senza distinguo. Le prime analisi che fotografano un “set” in nero e composito di un campionario coinvolgente estremisti di sinistra e di destra, reduci dalle tifoserie debellate alla ricerca di curve sud virtuali, no Tav e no global, segnano e valorizzano un confine con moltitudini che quel salto hanno fin qui rigettato. Eppure sbaglieremmo a compiacercene senza qualche riflessione aggiuntiva. In primis se guardiamo in Tv le manifestazioni di Atene ci accorgiamo subito che la violenza contro le misure per ridurre il debito travalica di gran lunga il perimetro che chiamiamo black bloc, ma il cui animus bellicista già in Grecia infetta ben più consistenti strati sociali. Per almeno due motivi: la violenza giovanile è paragonabile alla droga e a guisa di una eroina di pronto uso, esalta e illude chi ha perduto speranza e futuro. Quanti in un prossimo domani si chiederanno: infine perché non provarla anche noi se ogni altro mezzo risulta inutile? Il secondo motivo sta nella confusione delle idee: alcune buone (come l´”economia della decrescita”) si agglutinano a pericolose indicazioni (come “Il debito non lo paghiamo” o “Fuori dall´euro”). Le une e le altre uniscono violenti e non violenti e quando le idee si somigliano può esser facile scivolare dall´uno all´altro campo. Per questo mi desta qualche perplessità il compiacimento di banchieri e industriali per gli “Indignati”.
È, comunque, un momento di difficili e impopolari distinguo ma non si deve confondere la comprensione con la condivisione. anche se va ribadito con forza e chiarezza che le generazioni di cui questi giovani sono la combattiva espressione hanno pienamente ragione nel rifiutare qualsiasi responsabilità per la crisi. Eppure sbagliano anch´essi, se oggi, hic et nunc, rifiutano di onorarne per la loro parte il conto. Nell´arco che andò dalla conclusione del conflitto mondiale, alla Liberazione e alla Ricostruzione (grosso modo dal 1944 al 1950) anche la gioventù di allora incrociò un analogo interrogativo e lo risolse accollandosi la responsabilità delle conseguenze di una guerra perduta, quanto dissennata nelle sue motivazioni. Lottò con le armi per il riscatto e con un impegno senza pari per edificare, assieme alla democrazia, le case, le strade, le infrastrutture di un´Italia tutta da rifare. Certo, erano facilitati da una saldatura generazionale non frantumata, da quell´intreccio tra giovani e adulti, elaborato da partiti consapevoli del loro ruolo storico, quale che fosse l´ideologia di ognuno.
Oggi dobbiamo ricordare che il debito pubblico italiano ammonta a 1.870 miliardi, pari al 118% del Pil. Ha cominciato a lievitare negli anni Settanta ma non è frutto solo di inefficienza, sprechi, costi della politica e ruberie. Un´altra parte è dovuta alla costruzione di un Welfare previdenziale, sanitario, scolastico e quant´altro, propugnato dai grandi partiti di massa e dai sindacati, che ha permesso nell´assieme agli italiani un tenore di vita in certe zone più avanzato, in altre meno, ma sempre paragonabile al resto d´Europa. Solo che altrove è stato pagato da più alta produttività e osservanza fiscale. Da noi ci siamo assicurati il benessere col debito e l´evasione fiscale. I certificati di quel debito, paragonabili alle cambiali che emette un padre di famiglia in difficoltà, sono per il 45% detenuti da banche e soggetti stranieri che temono oggi la nostra incapacità di pagare gli interessi annui (32 miliardi solo per l´estero). Questo timore li fa aumentare (il famoso spread con i bondi tedeschi) e ci si chiede se alle aste per rinnovare i nostri certificati di debito, gli interessi saranno così alti da soffocarci o, per converso, il pericolo della nostra insolvenza sia così acuto dal dissuadere banche. Fondi pensione e altri risparmiatori dal presentarsi alle aste.
Non si tratta però della piccola Grecia ma di uno dei grandi paesi industriali con il terzo debito del mondo. I suoi titoli sono nelle casse dei principali istituti finanziari di ogni continente. Se non valessero all´improvviso quasi nulla salterebbero molte banche e probabilmente l´euro. Non è detto che non avvenga. Per questo l´Italia è oggi al centro della crisi, anzi è la crisi. Ecco il senso dell´intimazione della Merkel e Sarkozy a tutte le istituzioni italiane perché entro mercoledì vengano prese misure urgenti di risanamento. Non vale neanche la pena di sottolineare come l´appello ignori anche formalmente il governo di Roma e il suo premier.
La Repubblica 24.10.11