Ultimo venne il corvo. Alla fine anche Tremonti si è arreso all’uccello del malaugurio che già da settimane, secondo la vulgata governativa, volteggiava tra Confindustria e Bankitalia. Il 2009, dunque, sarà “un anno terribile”. Noi lo sapevamo già. Come lo sapevano migliaia di cassintegrati rimasti senza lavoro, di precari rimasti senza sussidi, di piccole imprese rimaste senza ordinativi. Ora lo riconosce pubblicamente anche il ministro del Tesoro. La paura ha ceduto alla speranza. La resa di Giulio è verosimilmente dolorosa, e colpevolmente tardiva. Ma nessuno se ne può compiacere. Se anche lui ha capitolato, dopo mesi di cadornismo congiunturale, vuol dire che l’Italia è davvero messa male.
Resta da chiedersi il perché, di tanta prolungata “resistenza” di fronte all’inesorabile asprezza della crisi e di tanta ostinata “renitenza” di fronte all’ineludibile principio di realtà. L’ottimismo di facciata imposto da Berlusconi all’intera squadra di governo spiega il rebus solo in parte. Il vero problema di Tremonti è la tenuta dei conti pubblici, e quindi l’affidabilità del marchio Italia sui mercati. Con un Prodotto lordo in picchiata al – 2,6%, il deficit lievita inevitabilmente verso quota 4%. Ma quello che è peggio, è che il debito esplode oltre il tetto del 110%, già pericolosamente stimato dalla Commissione Ue. In due mesi siamo tornati indietro di dodici anni. Formalmente l’Italia non figura tra i “Pigs”: il Portogallo e l’Irlanda stanno peggio per crescita insufficiente, la Grecia per instabilità politica, la Spagna per emorragia occupazionale. Ma sostanzialmente l’Italia può rivelarsi il primo dei “Pigs”: sta peggio di tutti per indebitamento.
Per questo, a dispetto delle indubbie capacità previsive testimoniate dal suo fortunato bestseller pre-elettorale e al prezzo di un’apparente incoscienza dimostrata con il suo modesto pacchetto anti-crisi, Tremonti è stato così prudente e continua ad essere così restio ad aprire i cordoni della borsa. Proprio lui, il seducente modernizzatore della nuova destra politica, è diventato il sedicente conservatore del vecchio rigore contabile. Dice no al sussidio di disoccupazione proposto dal Pd, dice no all’aumento degli stanziamenti per nuovi ammortizzatori sociali, dice no a qualunque intervento sulle pensioni. Congela, ma non riforma. Ricama, ma non innova. Teme di non poterselo permettere. Se una sola posta di bilancio gli sfugge di mano, il Paese può imboccare il tunnel del default.
Tremonti ha due incubi: gli spread, cioè i differenziali di rendimento tra i nostri titoli pubblici e quelli tedeschi, e le aste dei titoli di Stato. Se per effetto di un drastico peggioramento della nostra situazione finanziaria i primi salgono troppo, o le seconde attirano poco, l’Italia rischia la bancarotta. In questi ultimi giorni, dopo una fase di relativa quiete, gli spread sono tornati ad aggirarsi intorno ai 150 punti base. Non è un dramma: ma un po’ di tensione è tornata. La scorsa settimana, all’ultima asta dei Btp, il Tesoro è riuscito a collocare oltre 10 miliardi di titoli, con una domanda del mercato a livelli record. Un segnale confortante: ma legato essenzialmente al buon rendimento offerto. L’equilibrio del mercato è fragilissimo. Basta un niente, e tutto può saltare. Sui “Cds” (le polizze che coprono dall’ipotesi di crack dei singoli Paesi) e sugli “swap” (prodotti assimilati che investono sul rischio-default degli Stati Sovrani) l’Italia resta ai primissimi posti. Nel primo caso siamo a 173 punti base, subito dopo i 350 dell’Irlanda. Nel secondo caso (come riferiamo a pagina 7 del giornale) a 116 punti base, subito dopo i 237 della Grecia e i 221 dell’Irlanda.
Camminare a lungo, sull’orlo di questo precipizio, non è facile per nessuno. Tremonti non può sperare neanche troppo nell’Europa. È in atto un tentativo, che parte da Roma e incrocia altre cancellerie europee, per verificare se si possa attribuire alla Bce la facoltà di trasformarsi in acquirente di ultima istanza dei titoli del debito pubblico rimasti eventualmente invenduti alle aste indette dagli Stati Sovrani. Ma una prima istruttoria fatta in questi giorni a Francoforte ha già dato esito negativo: occorrerebbe una modifica del Trattato, e questo sbarra la strada a qualunque ipotesi di accordo, visti i dissidi che già caratterizzano il rapporto franco-tedesco su una proposta come quella dell’emissione di un eurobond europeo. Come ha detto in questi giorni lo stesso ministro a un interlocutore autorevole: “Non troviamo un’intesa nemmeno sulle date delle riunioni, figuriamoci se possiamo trovarla su robe del genere…”.
Insomma, l’Italia è senza rete. E come si dice in queste ore nel grattacielo dell’Eurotower, “praticamente non ha margini di manovra”. Deve solo sperare che la crisi, benché così acuta, non sia troppo lunga. Che nel frattempo non crolli qualche banca, magari schiacciata dal macigno delle “zombie banks” dell’Est-Europa. Che il quadro sociale e politico regga, sotto il peso di un’emergenza occupazionale sempre più rovinosa. Tremonti lo sa, ma non può dirlo. Per questo sembra paralizzato, e vive come una minaccia ogni richiesta di “fare di più” contro la crisi. Per questo appare isolato, e vede come il fumo negli occhi Mario Draghi, l’ombra di Banco che incombe suo malgrado su Palazzo Chigi e su Via XX Settembre, nel malaugurato caso di un tracollo dell’economia. Ma per governare la madre di tutte le crisi servono realismo e coraggio. Il primo, finalmente, sembra arrivato. Il secondo, purtroppo, lo stiamo ancora aspettando.
La Repubblica, 6 marzo 2009
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