Chi teme nell’Europa del rigore che nessuno si preoccupi più della crescita aveva tempo addietro ragione di sentirsi da solo. Oggi non è più così e sembra anzi che stia accadendo il contrario. Esponenti politici di destra e di sinistra, testate prestigiose di orientamento progressista e conservatore, lo stesso Fondo monetario internazionale puntano i riflettori sulle ragioni della crescita e sulla necessità per i Governi di farsene carico. Noi stessi in Italia siamo in attesa di un “decreto sviluppo”, che – si dice – dovrebbe smuovere una buona volta la nostra economia stagnante da anni.
Io mi auguro che sia così e parimenti mi auguro che approdi a qualcosa la robusta polifonia pro-crescita in atto in tutta Europa. Ma francamente ne dubito e non solo perché ancora non se ne dimostra sufficientemente convinta la Germania (almeno per quanto riguarda le politiche prioritarie da imporre ai Paesi più indebitati dell’Eurozona e gli strumenti da attivare in sede europea).
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Ciò che più mi lascia perplesso è che molti degli appelli a favore della crescita sembrino astoricamente collocati in un vuoto, che prescinde da qualsiasi consapevolezza degli scenari concretamente prefigurabili per il nostro futuro.
Non a caso, quando poi andiamo a vedere i veicoli di crescita a cui ci si vuole affidare, ci troviamo davanti alla classica potatura di lacci e laccioli, alle liberalizzazioni ancora da fare ovvero, se si è eterodossi, a più spesa pubblica da trasformare in investimenti e servizi. Ora, sarò l’ultimo a negare che, in quanto possibili, tutte queste cose siano utili a stimolare l’economia. Ma nessuno mi leva il sospetto che, se qui ci fermiamo, allora vuol dire che in realtà pensiamo alla crescita in chiave di amarcord e ci siamo dimenticati di ciò che, nei primi mesi della grande crisi finanziaria di tre anni fa, sembravamo aver capito tutti quanti. La crisi era finanziaria e tuttavia ne saremmo usciti non soltanto con rimedi finanziari, ma anche prendendo atto di cambiamenti economici destinati a segnare profondamente la nostra vita futura; e a segnare soprattutto, in chiave non trionfale, la vita delle aree ad oggi più avanzate, a partire dagli Stati Uniti e l’Europa.
È in queste aree che la tecnologia ha già prodotto effetti devastanti sulla produzione di posti di lavoro da parte in primo luogo (ma non solo) del settore manifatturiero. Ed è in queste aree che più si pagano gli effetti negativi della facilità per le imprese di produrre beni e servizi in parti diverse del mondo. Certo, per molti anni le imprese che ancora producono in Occidente hanno la prospettiva di compensare con l’esportazione nei Paesi emergenti la riduzione di domanda interna conseguente ai fenomeni testé descritti. Ma anche questi flussi verso l’estero incontreranno limiti crescenti via via che quei Paesi aumenteranno la loro produzione interna e soddisferanno così loro stessi quote più ampie della loro domanda interna. Del resto, se leggiamo le previsioni a lungo termine, i numeri sono chiari. Fra una trentina d’anni i tassi di sviluppo di inizio secolo sull’orlo delle due cifre si saranno ridimensionati. Ma con l’Occidente attestato, nel migliore dei casi, ad un tasso fra l’uno e il due per cento medio, il resto del mondo viaggerà mediamente attorno al doppio.
Sono prospettive che inducono a domandarsi non solo quanta crescita, ma anche, e conseguentemente, quanto benessere potremo avere in futuro rispetto a quello attuale. Parlandone la settimana scorsa a New York con autorevoli interlocutori americani, mi sono sentito chiedere se non dobbiamo prepararci a livelli medi di retribuzione sul mercato globale, che scaturiranno da una riduzione pesante dei nostri e da una crescita di quelli dei Paesi oggi più poveri (un fenomeno che ha già preso ad accadere, come sanno i giovani ingegneri assunti oggi da noi con remunerazioni un tempo da operai metalmeccanici); e se in futuro non sarà il caso di ripensare i servizi che ci costano di più, limitando ad esempio l’assistenza sanitaria per chi ha la mia età a manutenzione e messa a punto e rinunciando a quei più costosi interventi che sarà bene riservare ai più giovani.
Non voglio rattristare nessuno, voglio solo dire che se sono plausibili prospettive del genere, ne consegue che la strada della crescita non può essere quella dei soli stimoli tradizionali all’economia, deve essere per i singoli Paesi una strada che punta ad avvalersi al meglio delle specificità, delle vocazioni e delle dotazioni su cui ciascuno possa costruire per sè il vantaggio competitivo più duraturo. E allora serve a tutti, in Europa, che i nostri leaders diano il via almeno ai “project bonds”, così da convogliare risorse private verso gli investimenti in infrastrutture che i bilanci nazionali in regime di austerità non possono finanziare. Serve a tutti garantire le banche che ne hanno bisogno, allo scopo di mantenere vivi i flussi di liquidità essenziali alla vita delle imprese. E serve a tutti semplificare (senza complicarlo nel farlo) lo start up delle imprese.
Ma serve poi in particolare all’Italia concentrare risorse, cure e attenzione su ciò che essa pensa di poter fare e dare nel mondo, più e meglio degli altri. Ciò significa di sicuro una politica industriale, così come giustamente richiesto giorni fa dal Capo dello Stato. Il secondo Paese manifatturiero d’Europa la merita. Ma è oltre a ciò un insieme di politiche per valorizzare il tanto che l’Italia sola può offrire al mondo: il suo patrimonio storico culturale e la sua natura, il design che essa sa esprimere nelle produzioni più diverse e non solo nella moda, la sua progettualità di opere architettoniche e infrastrutturali, i comparti scientifici in cui essa continua, nonostante gli ostacoli, a primeggiare.
Giorni fa ho stimolato in questa chiave un dibattito in sede Aspen fra esponenti dell’economia, della cultura, delle istituzioni e dell’accademia, e ho capito che il terreno è fertile, anche per le diversità di accentuazione che esso genera e su cui volendo si può costruire. È un dibattito dal quale sono uscito ottimista. Siamo pieni di carenze e di acciacchi, ma vivaddio abbiamo la fortuna di vivere in un Paese che davvero dispone di carte fra le più preziose in un mondo globalizzato in cui quasi tutti potranno replicare quasi tutto. Ciò che non potranno replicare, però, è tanto il patrimonio naturale e culturale italiano, quanto l’insieme delle qualità italiane che quel patrimonio lo sanno aggiornare e poi offrire sia in Italia che ovunque nel mondo.
È bene che la politica lo capisca che la crescita di cui occuparsi è per l’Italia tutte queste cose. Ma è anche bene che lo capiamo tutti noi, imparando a usare i nostri (in genere) ottimi cervelli e la fetta d’Italia in cui viviamo, non soltanto nel nostro interesse e in quello dei nostri familiari più stretti, ma in vista del nostro futuro comune.
Il Sole 24 Ore 16.10.11