Silvio Berlusconi avrebbe potuto fare uno sforzo e pronunciare alla Camera un buon discorso, percorso da un minimo di «pathos»: in fondo ne andava della sopravvivenza del governo. Invece quello letto ieri è stato uno dei peggiori interventi del presidente del Consiglio.
Privo di novità, ripetitivo, generico: un elenco di vaghi propositi mai sostenuti da un impegno concreto, o almeno da una notizia utile ai giornali. Un discorso senza tempo identico ad altri già ascoltati nel passato recente o meno recente. Altro che contrattacco.
Come mai questa disattenzione in un momento cruciale per la vita della legislatura? Forse la risposta è che Berlusconi non aveva interesse a preparare o a farsi preparare un intervento di qualità, consapevole che non è su questo che si decidono le sorti del governo. Il premier sa che stamane la fiducia gli sarà data o negata (e probabilmente l’avrà) non certo per quello che ha detto o taciuto in un discorso di maniera. Bensì per l’assenza di qualsiasi scenario alternativo degno di essere preso in considerazione.
Il fatidico governo tecnico o di responsabilità nazionale non è a portata di mano, anzi è del tutto inconsistente, perché nessuno sa bene come e con chi costruirlo. Il Pd ne parla per ragioni tattiche, ma se mai la prospettiva prendesse corpo verrebbero al pettine infiniti nodi: dalla rottura con Di Pietro e Vendola al peso di una politica economica insostenibile a un anno e mezzo dalla fine naturale della legislatura. E Casini non ci crede nemmeno lui, anche se incoraggia per quanto può le faide interne al Pdl.
In ogni caso, se pure fosse esistito uno spiraglio per il governo «diverso», guidato da un altro presidente del Consiglio, Berlusconi si è affrettato a chiuderlo. Il secco aut-aut («o me o le elezioni»), accompagnato da un inusuale elogio del capo dello Stato, dimostra che il presidente del Consiglio, rinserrato a Palazzo Chigi, si sente in grado di giocare la sua ultima carta. Che ovviamente non è la sfida del buongoverno o delle riforme, ma più semplicemente il tentativo di durare ancora qualche mese per poi andare alle elezioni avendo salvato l’alleanza con Bossi.
Questo riduce fino quasi ad annullarlo lo spazio di manovra dei contestatori. Se esistesse un’altra formula o un altro patto politico per allungare la legislatura dopo aver eliminato Berlusconi, il partito della sfiducia prenderebbe subito corpo. Così stando le cose, chi può negozia qualcosa per sé e gli altri dovranno decidere stamane cosa è più importante: la propria coscienza o il proprio partito (e conosciamo la risposta di Gladstone).
In altre parole, si conferma una volta di più che stiamo vivendo il lungo tramonto di un governo, di una stagione politica legata al nome di Berlusconi e forse, chissà, anche del bipolarismo. Nel fine settimana i cattolici si riuniscono a Todi con il cardinal Bagnasco proprio per studiare il futuro dell’area moderata e l’evento ha un preciso significato. Intanto però l’agonia del non-governo (come avrebbe detto Ugo La Malfa) continua inesorabile.
Il premier sta riuscendo ancora una volta – salvo colpi di scena – a ingessare la coalizione. Ha rinsaldato l’accordo con la Lega e questo gli permette di essere più ottimista sul suo immediato futuro. S’intende che i problemi restano sul tavolo, tutti irrisolti. Ma la prospettiva di andare a votare comunque ai primi del 2012, perché altro non si potrà fare, aiuta a intravedere una via d’uscita. E carica qualche responsabilità sulle spalle di un’opposizione tutt’altro che lucida. Essere usciti tutti insieme dall’aula di Montecitorio non vuol dire essere pronti a governare insieme. Proprio il contrario. E il disprezzo verso i radicali che sono rimasti ai loro posti «per rispetto verso le istituzioni» è un brutto segnale.
Il Sole 24 Ore 14.10.11