Non era mai accaduto, a memoria, che il Rendiconto generale dello Stato, ossia il bilancio consuntivo, fosse bocciato dal Parlamento. Ieri l’articolo 1 è caduto per un voto, in un contesto clamoroso e carico di simbologie: il premier che ha appena votato, evento raro per lui; il ministro dell’Economia che invece resta fuori dell’aula; Umberto Bossi, stampella ufficiale dell’esecutivo, che non fa in tempo ad arrivare; altri assenti che invece sono da annoverare fra i nemici di Tremonti e della Lega.
Da tempo ci si chiedeva quando e come sarebbe risuonato il colpo di pistola di Sarajevo; ossia quando si sarebbe verificato l’episodio in grado di far saltare i consunti equilibri della legislatura. Ora la domanda è: il voto mancato di ieri sera è la pistola di Sarajevo per il governo Berlusconi? Forse non lo è, se dallo smacco ci si aspetta che derivino le dimissioni automatiche e immediate di Berlusconi, come ovviamente reclama l’opposizione e come sostengono alcuni costituzionalisti (e così senza dubbio sarebbe avvenuto ai tempi della Prima Repubblica). Ma quel segnale può essere qualcosa di altrettanto grave: la prova dirompente e definitiva che la maggioranza è a pezzi, priva di nerbo e incapace di tenere la rotta.
In altre parole, si è aperta una seria e profonda questione politica nella coalizione Pdl-Lega. E si è aperta su un tema di straordinaria delicatezza istituzionale, perché il Rendiconto regge l’impianto della stabilità economica. Il fatto che Tremonti e Bossi – ma anche Scajola – fossero nei paraggi dell’emiciclo ma non abbiano votato, sia pure per distrazione, sfortuna o altre ragioni, ha un significato. Il fatto che l’incidente arrivi dopo le furiose polemiche sul condono fiscale e sulle risorse che non si trovano da dedicare allo sviluppo, ha pure un significato. La frattura è evidente.
Ha molto a che vedere con la leadership sempre più debole e confusa di Berlusconi, con il crescente malessere della coalizione, con la paura di una prossima disfatta elettorale. Ma c’entrano soprattutto i nodi irrisolti: dalla Banca d’Italia alla politica economica, sullo sfondo dell’ossessione giudiziaria che assorbe più che mai le residue energie del presidente del Consiglio.
Ci sono tutte, ma proprio tutte le premesse per una crisi di governo e per un successivo processo di chiarimento. A costo di passare per un altro esecutivo di fine legislatura ovvero per lo scioglimento delle Camere e nuove elezioni come succede in tutte le democrazie. In questo senso, è vero: il voto di Montecitorio può essere paragonato al colpo di Sarajevo. E in ogni caso nessuno può sottovalutarne la drammaticità e le conseguenze politiche a breve termine.
Dire che si tratta solo di «un problema di numeri», come sostengono alcuni esponenti del centrodestra, vuol dire non voler comprendere la portata politica dell’episodio e chiudere gli occhi davanti alla realtà avversa. Naturalmente Berlusconi e i suoi tenteranno di restaurare l’ingessatura della maggioranza: magari con un maxi-emendamento volto a recuperare l’articolo 1 e sul quale porre la questione di fiducia. Può darsi che abbiano sulla carta i voti per farlo, come è accaduto in passato. Ma non sarebbe una dimostrazione di vigore ritrovato: sarebbe, appunto, un’ingessatura.
La verità è che la maggioranza non ha più una spina dorsale politica. Pensare di risolvere la contraddizione con un «cerotto» fatto di numeri assemblati alla meno peggio, vuol dire aggirare per l’ennesima volta la sostanza dei problemi. Il che equivale a ritrovarsi nel pantano dopo pochi giorni, esposti a nuovi incidenti e a nuovi colpi di mano. A questo punto il buon senso vorrebbe che fosse il presidente del Consiglio in prima persona a proporre al capo dello Stato il chiarimento politico. Senza escludere l’apertura formale della crisi che permetterebbe di affrontare le questioni irrisolte: quelle politiche e quelle di merito. Viceversa, gli espedienti parlamentari possono aiutare a incollare i cocci della maggioranza. Ma difficilmente sarebbero in grado di curarne i malanni di fondo.
Il Sole 24 Ore 12.10.11