Malgrado i ripetuti tentativi di Berlusconi e del Pdl di minimizzare la bocciatura ricevuta ieri dalla Camera, la gravità di quanto è accaduto è evidente. Per il governo, l’approvazione ogni anno del rendiconto e del bilancio dello Stato non è una facoltà: è un obbligo preciso, stabilito dall’articolo 81 della Costituzione. Non a caso nei due precedenti riaffiorati dalle memorie parlamentari, i presidenti del Consiglio che incorsero in simili incidenti – Andreotti e Goria – si dimisero senza indugi.
Berlusconi invece, pur visibilmente contrariato dall’accaduto (lo si è visto in tv lasciare l’aula di Montecitorio guardando gelido Tremonti e brandendo i fogli dei tabulati delle assenze), ha subito fatto sapere che intende ripresentarsi e chiedere la fiducia. Per dimostrare, come ha fatto altre volte, che solo di un infortunio s’è trattato, e non di un segnale politico dal profondo della pancia del centrodestra.
La giornata politica, in effetti, sembrava indirizzata in tutt’altra direzione. Un pranzo pacificatore a Palazzo Grazioli tra il Cavaliere e l’ex ministro Scajola sembrava aver sancito la tregua tra il premier e il capo della più temuta pattuglia di dissidenti del Pdl. La Camera e il Transatlantico erano affollati; ai banchi del governo, come nelle occasioni importanti, sedevano il presidente del Consiglio e i ministri, i cui voti sono indispensabili, data l’esiguità della maggioranza. La quale maggioranza, a dispetto delle previsioni, s’è liquefatta con ben 25 voti mancanti, 17 del Pdl tra cui quelli del ministro dell’Economia, pur presente, e del reduce dalla colazione pacificatrice Scajola; di 7 dei Responsabili tra cui l’uomosimbolo Scilipoti e l’aspirante ministro Pionati; più Bossi che non è arrivato in tempo a inserire la scheda nella postazione per la votazione elettronica.
Questo approssimativo elenco dei colpevoli basta già ad escludere una congiura, non foss’altro perché i congiurati solitamente agiscono nell’ombra, e, dato che il governo è andato sotto soltanto per un voto, sarebbe bastato che uno solo di quelli che erano lì per lavorare, e hanno preferito fare altro, si fosse ricordato di fare il proprio dovere. Ma il fatto che non si sia trattato di un agguato, di una manovra, di un qualsiasi, anche irrazionale, disegno politico, com’erano appunto quelli dei franchi tiratori democristiani che riuscivano a far dimettere capi di governo del calibro di Andreotti, non è affatto una consolazione. O almeno non dovrebbe esserlo, né diventarlo. In questo senso, davvero non si capisce come possa Berlusconi ridimensionare l’accaduto e annunciare «d’intesa con il Capo dello Stato», prima ancora di andare al Quirinale per consultarlo, che ripresenterà il testo bocciato e lo farà approvare con la fiducia. Magari ci riuscirà pure, sempre che Napolitano non consigli un chiarimento parlamentare più approfondito. Ma un governo che non riesce ad andare avanti nel normale iter dei lavori parlamentari, e deve continuamente ricorrere al voto palese per convincere i parlamentari a rigare diritto, non va molto lontano.
La Stampa 12.10.11