Marina Berlusconi ha rilasciato ieri al «Corriere» un’intervista il cui contenuto è a dir poco stupefacente. Il punto centrale del ragionamento è costituito da una vicenda e da una notizia. La vicenda è la controversia civile che ha visto Cir contrapposta a Fininvest, e quest’ultima condannata, in appello, a risarcire alla prima oltre 564 milioni di euro. La notizia è che Fininvest avrebbe «appena presentato un esposto al ministro della Giustizia e al procuratore generale della Cassazione (cioè ai titolari dell’azione disciplinare) nel quale si segnala un’anomalia che avrebbe avuto un peso decisivo sulla sentenza». Sarebbe accaduto che, nella motivazione, la Corte di appello avrebbe fatto perno su un precedente giurisprudenziale fondamentale, che sarebbe stato tuttavia stravolto con il taglio di passaggi decisivi, tali da ribaltare addirittura «totalmente» la tesi giuridica ivi sostenuta.
Le parole usate da Marina Berlusconi sono durissime: «Altro che leggi ad personam, qui siamo al diritto cucito su misura; quando ci sono di mezzo mio padre o le nostre aziende, spuntano addirittura princìpi giurisprudenziali inediti; peccato che siano princìpi inesistenti, nati dal “taglio” di una frase e dalla mancata citazione di altre».
Anche se a domanda successiva del giornalista: «Ma allora sta dicendo che la sentenza è stata manipolata; accusa i giudici di un falso?», la presidente risponde: «Me ne guardo bene, l’esposto si limita a segnalare alle autorità competenti quanto è accaduto», l’accusa ai giudici è, in ogni caso, precisa e grave. In questa sede non m’interessa tanto stabilire se ciò che è stato denunciato sia giusto o sbagliato (anche se mi sembra davvero peculiare che giudici esperti, chiamati a giudicare un caso tanto scottante, siano incorsi in un errore clamoroso agevolmente individuabile dai legali del soccombente). Mi interessa, piuttosto, domandarmi: che significato «politico» ha denunciare a tutto tondo, sul maggior quotidiano italiano, che i giudici che hanno condannato ad un risarcimento pesante un’azienda del presidente del Consiglio hanno manipolato le carte ed annunciare l’avvenuta presentazione di un esposto disciplinare?
L’esposto al ministro e al procuratore generale non è un’iniziativa di routine; presuppone il sospetto (o addirittura la certezza) di dolo o colpa grave da parte di chi ha giudicato; costituisce un’extrema ratio che raramente si ritrova nelle aule di giustizia. Di regola, se si sospetta un’utilizzazione errata di atti o di sentenze, noi avvocati ricorriamo in Cassazione, denunciamo l’errore di diritto, sicuri, se veramente abbiamo certezza di essere nel giusto, di ottenere l’auspicato annullamento. Se davvero la sentenza che ha condannato Fininvest a pagare oltre 564 milioni a Cir fosse viziata da un’inesatta, errata o monca utilizzazione di precedenti decisivi, il suo annullamento da parte della Cassazione sarebbe fuori discussione. Ed allora perché, appunto, la presentazione, del tutto inusuale, addirittura anticipata rispetto al deposito del ricorso in Cassazione, di un esposto?
Presentare un esposto costituisce un diritto di chi ritiene di avere subito un torto. Non potrebbe essere tuttavia, questa specifica iniziativa, fatta dal presidente di Fininvest (e Mondadori), che è figlia del presidente del Consiglio (a sua volta interessato nella stessa), oggettivamente, un’intimidazione e basta? Un’intimidazione ai giudici che saranno chiamati a giudicare in Cassazione, alla magistratura tutta intera? Gli interessi di famiglia sono troppo importanti, a questo punto, e troppo minacciati, perché si possa ancora tentennare.
Ma non solo. Dopo avere discettato a lungo su torti e ragioni della menzionata vicenda giudiziaria privata di famiglia, Marina apre a tutto campo. Il suo babbo sarebbe la vittima di un’aggressione concertata: contro di lui «s’inventano inchieste a ripetizione su reati inesistenti», «il fango fabbricato viene palleggiato fra una Procura e l’altra e infine riciclato», «il processo, con relativa, inevitabile condanna, lo si celebra sui media». Infine, rispondendo a specifica domanda che citava l’editoriale di Panebianco che chiedeva a Berlusconi un passo indietro nell’interesse del Paese, un’affermazione tranciante: «Mio padre non deve assolutamente mollare e non mollerà».
Privato e pubblico, a questo punto, sembrerebbero impropriamente mescolati: risarcimenti non dovuti che devono essere pagati, Procure eversive che utilizzano il potere giudiziario per colpire a tradimento, libera stampa e informazione complice della terribile congiura. Quindi, resistenza, resistenza. Ad ogni costo.
Ma non sarà, allora, che al di là dell’indiscutibile conflitto di interesse personale del presidente del Consiglio, si sta profilando, a questo punto, un conflitto di interesse famigliare?
La Stampa 06.10.11
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di seguito la replica di M. Berlusconi a Grosso e la sua ulteriore risposta
Marina Berlusconi “Era un dovere denunciare quell’esproprio”
MARINA BERLUSCONI*
Egregio direttore, il professor Carlo Federico Grosso interviene sulla Stampa definendo «a dir poco stupefacente» una mia intervista al Corriere della Sera relativa all’esposto che come presidente Fininvest ho firmato per la sentenza d’appello sul Lodo Mondadori.
Secondo il professor Grosso, la mia iniziativa è «un fatto del tutto inusuale» e potrebbe rappresentare «oggettivamente» un’intimidazione nei confronti della magistratura.
Devo dire subito che «a dir poco stupefacenti» io trovo non le mie parole ma le sue. E’ un vero peccato, per cominciare, che al professor Grosso non interessi valutare il fatto, il contenuto dell’esposto. Gli suggerirei di leggerlo e di pronunciarsi sul punto centrale: è vero che la sentenza della Cassazione del 2007 dice esattamente l’opposto di quanto le fa dire la Corte d’Appello di Milano, nella sentenza che condanna la Fininvest a risarcire la Cir di Carlo De Benedetti per 564 milioni di euro? Proprio perché autorevole giurista, il professor Grosso sarà in grado di esprimersi sul merito, e la sua opinione risulterebbe di grande interesse per tutti.
Per il momento il professore preferisce però interrogarsi sul presunto «significato “politico"» dell’esposto. Mi chiedo: ma come può trovare così «stupefacente» il fatto che io segnali con forza una circostanza di questa gravità, determinante ai fini di una condanna spropositata? Le sentenze le rispettiamo, e l’assegno da 564 milioni per la Cir di De Benedetti è stato regolarmente firmato. I nostri avvocati si accingono a depositare il ricorso in Cassazione. Però mi pare un sacrosanto diritto utilizzare tutti gli strumenti che le norme mettono a disposizione per denunciare pubblicamente un verdetto che assume sempre più i contorni di un clamoroso esproprio.
E tutto questo rappresenterebbe un’intimidazione nei confronti della magistratura? Intanto, mi pare francamente paradossale rivolgerci questa accusa, se pensiamo che il nostro gruppo dal 1994, quando mio padre entrò in politica, ha subito 500 tra perquisizioni o sequestri, e ha visto aprire nei confronti delle sue società o dei suoi manager 106 procedimenti penali, la stragrande maggioranza dei quali sono già finiti nel nulla. Intimidazione mi pare un termine appropriato, ma noi ne siamo soltanto le vittime.
Presentare questo esposto era non solo un diritto, era innanzitutto un dovere. Un dovere nei confronti della nostra storia imprenditoriale, costruita sul lavoro, sul coraggio, sul talento di mio padre e di tutti coloro che, ieri e oggi, a tutti i livelli e nel più assoluto rispetto delle regole hanno contribuito a creare e a consolidare questo gruppo e a decretarne i successi. Ma esiste anche un dovere di tipo diverso, più generale, perché questa vicenda, pur di incredibile gravità, assume un significato che va anche oltre, fino a investire i fondamenti stessi della nostra democrazia. Non sarò certo io a dover spiegare ad un illustre giurista come il professor Grosso quale ruolo abbia, nella vita di una democrazia, la certezza del diritto, quale sia il suo insostituibile ruolo per la convivenza civile. E credo quindi sia innanzitutto un dovere chiedersi e chiedere se questa certezza del diritto oggi esista non soltanto nella forma ma anche nella sostanza, nel concreto esercizio della giustizia. La mia risposta è senza esitazioni: no, oggi in questo Paese la certezza del diritto non c’è più. Si può dirlo a voce alta o bisogna tacere per non essere accusati di voler intimidire la magistratura?
In tutto ciò non vedo la minima traccia di quel «conflitto di interessi» che il professor Grosso commentando l’intervista ipotizza, perché a suo dire «mescolerei» a valutazioni sulle aziende considerazioni più complessive di carattere politico. Questa mescolanza tra aziende e politica non deve essere contestata a me, ma va contestata a quella parte della magistratura che da quasi vent’anni tiene sotto attacco il nostro gruppo con finalità chiaramente politiche. Denunciare tutto questo significa porsi in conflitto di interessi?
Sul tema del conflitto di interessi però non posso davvero che rimettermi, in tutto e per tutto, alla competenza del professor Grosso, ponendomi sommessamente solo un’ultima domanda: ma si tratta dello stesso professor Carlo Federico Grosso che assiste abitualmente il gruppo De Benedetti in vertenze giudiziarie particolarmente delicate e importanti, alcune delle quali hanno come controparte il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi?
*Presidente Fininvest
Marina Berlusconi ed io abbiamo, evidentemente, opinioni molto diverse su democrazia, magistratura, stampa e comportamenti. Io rimango della mia idea, ma riconosco che la diversità di opinioni, e la possibilità di manifestarle, è in ogni caso, sempre e comunque, ricchezza per la democrazia.
Quanto alla mia attività professionale, è notorio che io difendo da anni i giornalisti di Repubblica, ma non ho mai difeso la Cir e tanto meno sono stato parte nella vertenza Cir-Fininvest. Nell’articolo di ieri non sono entrato nel merito di quella vertenza. Ho parlato di tutt’altro, di problemi generali. Quale conflitto di interessi, dunque?
Carlo Federico Grosso
La Stampa 07.10.11