Chi avrà il coraggio di guardare negli occhi i sopravvissuti al crollo di Barletta e i parenti delle vittime? Con quale faccia qualcuno si permetterà ancora di parlare di fatalità o di destino? Mentre si sta ancora scavando a mano, e le cause non sono state messe in luce, una cosa è certa, crolli e cedimenti degli edifici sono una tragica regola sul territorio italiano e non si fa nulla per prevenirli. Ma questo è proprio il momento di insistere, tanto per cominciare perché si vada fino in fondo a quanto testimoniato in quel ventre molle e fatiscente della città della disfida. Cioè che il crollo era annunciato da segnali premonitori pesanti come scricchiolii e allargamento di crepe e fratture.
Ma questi crolli sono sempre annunciati, perché spesso causati da interventi mal congegnati o in malafede, figli della bulimia costruttiva del nostro Paese e della speculazione, quando non da piogge torrenziali o frane. Anche qui, dove una parte della comunità cittadina teneva faticosamente in piedi la memoria di quel tragico crollo del 1959, quando 58 persone furono uccise da quella che allora già si tentava di chiamare la mala-edilizia. E il tutto è figlio dei soliti difetti, quelli sì strutturali: nessuna pianificazione nei centri storici, pochi piani regolatori e soprattutto deroghe e mancato rispetto delle regole. Nel 1959 furono le sopraelevazioni su un’autorimessa non adatta a sostenerne il peso a causare il crollo.
In questo caso vedremo, ma, come a Villa Jacobini a Roma o nel 1999 a Foggia, è la mancanza di controlli e manutenzione a fare il resto. Il raffronto tra prima e dopo il crollo a Barletta è impressionante: la facciata dell’immobile mostra i segni di un restauro recente, ma c’è stato un rilievo statico-strutturale? Sono state messe in campo competenze ingegneristiche, o tutto è stato lasciato nelle mani di tecnici impreparati? Da un lato poi ci sono le transenne dei lavori sulla casa vicina: sono stati fatti a regola? Si è provveduto a sostenere le strutture eventualmente interessate? Il tutto su quinte di case che mostrano i segni di interventi ripetuti a diversi livelli: mattoni e pietre a vista, malte intaccate da intarsi di tetti e muri, fori e l’idea di un caos costruttivo e abitativo che al sud è la regola. Qui non si aprono voragini come a Napoli e a Roma, non ci si mettono il terremoto come a L’Aquila o le frane come in Veneto. Qui tutto riporta alle colpe degli uomini. Interventi senza misura e fuori controllo sono la regola in Italia e l’abusivismo edilizio mette in condizioni di rischio centinaia di migliaia di persone.
All’alba del terzo millennio le abitazioni degli italiani non sono sicure, tutt’altro: tra frane, alluvioni, terremoti, voragini e cedimenti strutturali ogni cittadino ha, in un raggio molto corto attorno a casa propria, motivi per non fidarsi. Già è difficile vivere sotto la spada di Damocle di un grave rischio naturale, ma subire le conseguenze di mancanze di altra natura è francamente inaccettabile. E che fine ha fatto quel libretto dei fabbricati che avrebbe dovuto accompagnare la vita dei nostri immobili fornendone una carta d’identità veritiera? In questo contesto disastrato, speriamo che qualche regione si renda conto che non è di piani casa e aumento di volumetrie abitative che il Paese ha bisogno, ma della più grande delle opere: la ristrutturazione dei centri storici fatiscenti di una parte delle città italiane, specie del Meridione. Ritardare questa grande opera è ben più grave che averne realizzate poche delle altre.
La Stampa 04.10.11