Ci sono storie che vanno a toccare i nervi scoperti di una società, la nostra, all’apparenza così sicura di sé. In questo caso storie, tra loro opposte, di bambine down: una esclusa dalla fotografia di classe in una cittadina della Basilicata, l’altra invece fotografata e mostrata per amore dalla propria madre americana. Storie di handicap infantile. Ed ecco che la Rete si infiamma, s’indigna, soffre e gioisce. La discussione comincia con due articoli sul Corriere, di venerdì e sabato, poi continua con un intervento sul blog La 27esimaora. Ma presto tracima, moltiplicandosi, su altri forum. Il tema del dibattito è, appunto, l’handicap infantile, in particolare la sindrome di Down. Hanno scritto padri e madri, zii, fratelli, parenti, vicini di casa, narrando la vita con un bambino Down. Vita non facile, vita spesso faticosa. Ansie e angosce, riguardanti, sì, il presente, è cioè l’organizzazione quotidiana, la custodia e la salute, sovente malferma, dei piccoli «diversamente abili», nonché le reazioni non sempre garbatissime degli altri, però riguardanti assai di più il futuro lontano. Ansie e angosce che fanno porre ai genitori sempre la stessa, irrisolta domanda: «Cosa sarà di lui quando noi non ci saremo più?».
Ma altrettanta gioia esce dai messaggi, altrettanta fiduciosa accettazione di quel bambino in qualche modo speciale e diverso, altrettante testimonianze di una vita non più immaginabile senza di lui, una vita che sarebbe stata infinitamente più triste senza di lui. È l’amore che induce a scrivere certe frasi, che si ostina a dipingere di rosa situazioni che, viste da fuori, da lontano, difficilmente sembrano davvero così rosa? Ovvio che è l’amore, miracoloso, ostinato e pieno di energia, fortunatamente mai del tutto oggettivo, capace non soltanto di fare sognare ma anche di risolvere i problemi e le esistenze. È l’amore che a molti genitori di figli handicappati, anche gravissimi, ha fatto dire: «Meglio un figlio così che niente figli del tutto».
Tra l’altro, chi ha avuto un poco a che fare con l’handicap infantile, sa bene che la sindrome di Down è uno dei meno pesanti, che ha diversi gradi di gravità e che attenzione assidua, formazione e istruzione possono incidere molto sulle capacità di apprendimento e, dunque, sulla qualità della vita dei bambini e poi dei ragazzi Down peraltro notoriamente molto affettuosi e mai aggressivi. Ed è forse proprio questa la risposta che si dovrebbe dare ai non pochi lettori che ai forum del Corriere hanno scritto cose assai diverse: per esempio — la più dura di tutte — che chi mette al mondo, pur sapendolo in anticipo grazie alle indagini prenatali, un piccolo Down fa un torto grave alla collettività perché appesantisce in modo irresponsabile la spesa sanitaria. A parte il fatto che lo stesso rimprovero si potrebbe fare a chi mette volontariamente a rischio la propria salute ostinandosi a fumare o, anche, eventualmente, comprandosi una motocicletta superveloce, l’aborto «obbligatorio» nel caso che il bambino si preannunciasse Down non può non far pensare a programmi eugenetici di tragica memoria; oppure ad abbastanza tragiche notizie del giorno che ci informano di manager di cliniche private, nonché medici, sorpresi a rifiutare ai malati costose medicine anticancro perché, tanto, «quelli devono morire».
Il vero e più grave torto che si possa fare alla collettività sarebbe proprio quello di obbligare, sia pure soltanto moralmente, due genitori a liberarsi prima della nascita di un figlio Down, per pura questione economica: negando non soltanto comprensione o compassione ma anche quel grado minimo di solidarietà fatto di tasse pagate per sostenere il prossimo — non viene in mente altro termine più adatto di quello cristiano — colpito da qualche disgrazia o malattia, davvero si negherebbe l’esistenza stessa della comunità, la si vuoterebbe di senso, lasciando avanzare ancora di più il deserto.
Il Corriere della Sera 03.10.11