Succede a quasi tutti di accettare di pagare all’idraulico 100 euro in nero invece dei 140 che pretenderebbe in cambio di una regolare fattura Iva. Ma quante volte, in casi simili, consideriamo quei soldi risparmiati come una specie di indennizzo per la scarsa qualità del lavoro? La facilità con cui in Italia si evade il fisco di frequente spinge a rivolgersi a prestatori d’opera su piccola scala, semisommersi, dotati di tecnologie arretrate: lavorano peggio di altri, ma costano molto meno.
Questo ed altri piccoli esempi di vita quotidiana possono dirla lunga su che cosa significhi l’evasione fiscale per l’economia italiana nel suo insieme. Non si tratta solo di equità, ma di efficienza. Certo occorre preoccuparsi dell’alto carico fiscale che grava su tutto il Paese (raggiungeremo il record storico proprio governati da chi ci aveva promesso l’opposto); ma non per questo si può considerare una scelta sbagliata, o peggio un inganno, la scelta di reprimere con maggior forza l’evasione fiscale, come ha fatto Luca Ricolfi su queste pagine.
È vero che se con una bacchetta magica potessimo eliminare l’evasione da un giorno all’altro, molte piccole imprese chiuderebbero. Ma non è di questo che si tratta. Anche nella più rosea delle ipotesi, una maggiore fedeltà al fisco sarebbe conseguita in modo graduale. E le aziende che evadono il fisco prosperano alle spalle delle altre, quelle che giorno per giorno si impegnano a produrre meglio con meno. Chi evade rifugge dalle tecnologie avanzate, o da una organizzazione aziendale stabile, su vasta scala, con prezzi chiari, perché attirerebbero l’occhio del fisco.
È vero che l’alto livello di tassazione delle imprese italiane le sfavorisce nella gara mondiale. Per l’appunto le imprese che operano alla luce del sole sui mercati, con dipendenti regolari e bilanci passabilmente veritieri, vengono tartassate per tappare i buchi che nel gettito fiscale si aprono altrove. L’evasione fiscale invece si concentra tra chi opera sul mercato interno, in genere in settori dove la concorrenza internazionale entra poco o nulla. Non è segno di prosperità, nel XXI secolo, una abbondanza di botteghe che vendono merci identiche.
Insomma l’evasione fiscale va contata tra le cause del ristagno di produttività che frena l’economia italiana. Non è esatto dire che il nostro sistema amministrativo-tributario sfavorisce l’impresa. Il guaio vero è che scoraggia la crescita e l’evoluzione delle imprese. Se guardiamo i numeri, di piccoli imprenditori (lavoratori autonomi) ce ne sono fin troppi, una quota doppia rispetto agli altri Paesi avanzati. Ma: 1) i noti impacci burocratici sfavoriscono la creazione di imprese nuove, rispetto a chi già «sa come si fa»; 2) l’evasione permette ai già inseriti di tirare avanti comunque, senza avvertire le pressioni competitive del mercato.
Anche così togliamo futuro ai giovani, scoraggiando la crescita dimensionale e tecnologica delle imprese. L’evasione fiscale diffusa è una potente forza di conservazione, causa di immobilismo politico e di ristagno economico. Certo, viene qualche dubbio ad ascoltare tirate contro l’evasione da politici che prima quasi la giustificavano. Può darsi che tutto finirà in un condono, come è accaduto altre volte.
La Stampa 27.09.11
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“L’inganno dell’evasione fiscale”, di LUCA RICOLFI
Da un po’ di mesi a questa parte il tema dell’evasione fiscale è tornato alla ribalta. Ma è un ritorno strano. A differenza di un tempo, neanche poi tanto remoto, in cui la lotta all’evasione fiscale era una bandiera della sinistra, mentre la destra mostrava una certa indulgenza, oggi il tema dei miliardi (circa 130) sottratti ogni anno al fisco è diventato uno strumento di agitazione politica universale. Lo usa come sempre l’opposizione di sinistra, ma lo usa anche la Chiesa per impartirci lezioni di moralità, lo usano gli indignati di ogni colore politico, lo usa la destra di governo alla disperata ricerca di soldi per tappare le falle dei conti pubblici.
Accade così che, poco per volta, alle preoccupazioni per i sacrifici che la manovra ci impone, si mescoli e si sovrapponga un malessere sordo, una specie di risentimento, che alimenta un clima vagamente maccartista, di moderna caccia alle streghe. Gli evasori sono visti sempre più come la causa di tutti i nostri mali, la loro individuazione diventa una missione morale, e ci capita persino vedere un governo di destra – che ha sempre strizzato l’occhio all’evasione – accarezzare l’idea di fare gettito mediante la delazione.
Meno male, verrebbe da dire. Era ora, finalmente ci decidiamo a combattere questa piaga. Quando avremo vinto questa battaglia, l’Italia sarà finalmente un Paese civile e prospero.
E invece, su questa visione dei nostri problemi, vorrei insinuare qualche dubbio. Se quello che vogliamo è solo sentirci migliori del nostro vicino, la caccia alle streghe va benissimo. Ma se per caso il nostro sogno fosse anche di rimettere in carreggiata l’Italia, quella medesima caccia andrebbe reimpostata radicalmente. Perché l’evasione è un fenomeno che va innanzitutto spiegato e compreso, prima di combatterlo a testa bassa. Altrimenti la testa rischiamo di rompercela noi, anziché romperla (metaforicamente) agli evasori.
In Italia l’evasione fiscale ha due facce. La prima è quella che fa imbestialire i lavoratori dipendenti in regola: c’è chi potrebbe benissimo pagare le tasse, e non lo fa semplicemente perché vuole guadagnare di più. Questo tipo di evasione, da mancanza di spirito civico, si combatte con due strumenti: più controlli e aliquote ragionevoli. Se la si combatte solo con più controlli, il risultato è prevalentemente un aumento dei prezzi, come sa chiunque abbia a che fare con idraulici e ristoratori. Detto per inciso, è il ragionamento che – implicitamente fanno milioni di cittadini di fronte alla domanda: preferisci pagare 100 senza fattura o 140 con fattura?
C’è poi un secondo tipo di evasione fiscale, di sopravvivenza o di autodifesa. È l’evasione di quanti, se facessero interamente il loro dovere fiscale, andrebbero in perdita o dovrebbero lavorare a condizioni così poco remunerative da rendere preferibile chiudere l’attività. In questo caso quel che serve è innanzitutto una drastica riduzione delle aliquote che gravano sui produttori, altrimenti il risultato della lotta all’evasione è semplicemente la distruzione sistematica di posti di lavoro, un’eventualità che peraltro si sta già verificando: le regioni in cui Equitalia ha ottenuto i maggiori successi, sono le stesse in cui ci sono stati più fallimenti (vedi il dramma recente della Sardegna).
Immagino l’obiezione a questo ragionamento: «It’s the market, stupid!». Detto altrimenti: è un bene che nei periodi di crisi ci siano fallimenti, perché questo significa che il mercato riesce a far uscire le imprese meno efficienti, e a sostituirle con altre più dinamiche e competitive. Ma questa obiezione, che si basa sul concetto schumpeteriano di «distruzione creativa», vale solo se i regimi fiscali sono comparabili e ragionevoli. Oggi in Italia ci sono aziende in crisi che starebbero tranquillamente sul mercato se il nostro Ttr (Totale Tax Rate) fosse quello dei Paesi scandinavi, e simmetricamente ci sono floride aziende scandinave che uscirebbero dal mercato se le aliquote fossero quelle dell’Italia. Il mercato è un buon giudice dell’efficienza solo se le condizioni in cui le imprese operano sono comparabili. E in Italia le condizioni in cui le imprese sono costrette ad operare sono così sfavorevoli per tasse, adempimenti e infrastrutture, che la domanda vera non è «perché le imprese italiane arrancano?», bensì «perché ne sopravvivono ancora così tante?».
Ecco perché l’idea di risolvere i nostri problemi intensificando la lotta all’evasione fiscale andrebbe maneggiata con cura. Quello di far pagare gli evasori non è solo il sogno degli onesti, ma è l’ultima zattera con cui un ceto politico che non sa più che pesci pigliare cerca di salvare sé stesso e sfuggire alle proprie responsabilità. Incapaci di varare le riforme promesse, inadatti a prendere qualsiasi vera decisione, irresoluti a tutto, i nostri politici, di governo e di opposizione, hanno trovato nell’evasore fiscale il capro espiatorio con il quale distrarre l’opinione pubblica.
Ma è un grande inganno. Se la lotta all’evasione viene condotta unicamente per aumentare le entrate è inevitabile che essa produca effetti recessivi: disoccupazione (specie al Sud), aumenti di prezzo, contrazione dei consumi. Non solo, ma nulla assicura che l’obiettivo di far cassa venga raggiunto: quando la pressione fiscale sui produttori è già altissima (e quella italiana lo è: nessun Paese avanzato ha un Ttr più elevato), non è detto che il gettito che si recupera grazie a nuovi balzelli e più controlli superi il gettito che si perde a causa dei fallimenti e dei passaggi all’economia sommersa. Tanto più in un periodo come questo, in cui è già in corso una drammatica riduzione della base produttiva.
Se però ogni euro recuperato dall’evasione fosse destinato – per legge – a rendere meno difficile la vita a lavoratori e imprese, allora otterremmo almeno due risultati, uno economico e uno morale. Il risultato economico è che, poco per volta, i produttori di ricchezza che le tasse le pagano potrebbero finalmente rialzare la testa, consentendo all’Italia di tornare a crescere. Il secondo è che, con aliquote via via più ragionevoli, l’evasione fiscale non solo diverrebbe meno conveniente, ma perderebbe ogni giustificazione morale. Il «mostro» dell’evasione fiscale non ha un solo genitore, ma ne ha due. Ed è solo quando la mancanza di cultura civica (la madre) si sposa ad un fisco oppressivo (il padre) che il ragazzaccio diventa un mostro.
La Stampa 26.09.11