Non avrei mai immaginato che un giorno l’italianità avrebbe suscitato in me profonda malinconia. La strada che porta a ricusare i lineamenti del proprio Paese è lunga e dolorosa. Questa percezione è esplosa contro la mia volontà e contro le mie speranze. Non ha a che vedere con scelte politiche di destra o di sinistra. Ho servito il mio Paese per 44 anni. Sono stati anni bellissimi fino all’inizio del millennio. Diventai un diplomatico all’età di 23 anni dopo aver vinto un concorso pubblico. Il servizio allo Stato e la difesa degli interessi generali mi sembravano la realizzazione professionale più appagante che si potesse sognare. Ho amato per una vita il mio Paese: credevo nei patrioti del Risorgimento, della Resistenza, nel patrimonio politico lasciato da De Gasperi, Moro, Fanfani, nell’apertura, nella vitalità, nel cosmopolitismo della cultura italiana. Forse ero un ingenuo ma, avendo vissuto molto all’estero, coltivavo una visione positiva dell’Italia anche negli anni scanditi dal terrorismo, dalla criminalità mafiosa, dalla corruzione. D’altra parte non ero certo solo. L’Italia era circondata da affetto, simpatia, curiosità. Aveva una tabella di marcia. La debolezza dei governi non impediva che fossero prese decisioni coraggiose, non soffocava la crescita civile e la ricerca del rispetto presso la comunità internazionale. Non eravamo sempre affidabili però lo sforzo di ben figurare nel mondo era attendibile e riconosciuto. La dirigenza politica contava su personaggi provvisti di senso autentico degli interessi nazionali e rispettosi delle istituzioni. La cultura non era imprigionata dal mercato e dalla politica.
Per deformazione professionale, ho sempre fatto confronti fra noi e l’Europa. Mi accorgevo quando il Paese avanzava o quando regrediva. Negli ultimi anni è avvenuto qualcosa senza precedenti. Non esiste una rotta mentre la stella polare è diventata invisibile. Un prestigio faticosamente conquistato in Europa, nel Mediterraneo (non dice nulla la fotografia dei trionfanti Sarkozy e Cameron in Libia?), nelle Americhe è svanito nell’indifferenza e nell’apatia. L’indecente spettacolo offerto dalla classe politica, la gestione incompetente della politica estera, la scure finanziaria abbattutasi sulla cultura, la protervia imperante scivolano sulla pelle come acqua sul vetro. Vi sono buoni motivi per cadere nella morsa della malinconia.
Quando ritorno da un viaggio, tocco con mano la pesante cappa, senza allegria e bonomia, che incombe sulla nostra penisola. Gli stranieri che veneravano l’italianità come espressione di civiltà, umanità, sapienza, equilibrio hanno preso le distanze. Hanno provato imbarazzo per il padiglione italiano alla biennale di Venezia. La diversità per cui l’Italia era amata si è trasformata in una diversità per cui l’Italia viene identificata con un folklore mediterraneo di cattivo gusto. Adagiati nell’anarchico disordine della nostra vita, non ci rendiamo conto che la nostra identità ha cambiato fisionomia: contrassegnata non più da un ideale di qualità ma dall’accettazione della sciatteria. Il sindaco di Roma Alemanno, e altri come lui, vivono fuori dalla realtà e ignorano la repulsione di molti turisti verso città sporche e sgangherate, soffocate dai cartelloni pubblicitari abusivi e dalla maleducazione. Accettiamo fatti inimmaginabili altrove: le scorte che proteggono i politici nello stile di satrapie orientali, l’incuria per il patrimonio culturale, il provincialismo televisivo, la mancanza di progetti che non siano le colate di cemento con cui devastare il territorio, la dissacrazione dell’unità nazionale, il flusso di bugie, la rinuncia ai valori, lo stesso cinismo della Chiesa cattolica, l’autoreferenzialità, la leggerezza di alcuni gruppi industriali pubblici (ricordo lo stile della Siemens rispetto a quello della Finmeccanica nell’affrontare la corruzione interna), l’onnipresenza di personaggi insuperabili promotori dei propri interessi privati e spietati nemici degli interessi generali.
Quando ci si sente chiedere dove va l’Italia, la prima tentazione è di reagire. Esiste dopotutto anche un’Italia che crea e lavora in silenzio. Ma come ignorare che volgarità, spregiudicatezza, spavalderia hanno preso il sopravvento? Nel rifiuto di riconoscermi in un Paese diventato drammaticamente eccentrico rispetto alla normalità europea, sono sprofondato nel dispiacere e nella malinconia. In passato, il mondo identificava l’Italia come pilastro fondante dell’Europa. E adesso? Come collocarsi in un mondo dove tutti si rimboccano le maniche? Continuiamo nell’immobilismo e nell’inerzia? Qual è il nostro talento aggiuntivo? Con quali valori, con quali pensieri s’identifica oggi l’italianità: con la scurrilità della Lega? Non mi rassegno che l’Italia scompaia dal radar della considerazione internazionale e venga rubricata come uno spazio amorfo senza identità. Non accetto che una conversazione con amici stranieri cominci con le osservazioni «com’è possibile che il simbolo della civiltà europea cada così in basso… cosa significa toccare il fondo per voi…». Come si può lottare? È inevitabile che la malinconia (senza compiacimento) s’installi nel cuore di molti.
Il Corriere della Sera 27.09.11