La settimana scorsa Cameron e Sarkozy sono andati a Tripoli. L’assenza dell’Italia sembra quasi certificare l’esclusione del nostro paese dal processo di ricostruzione della Libia… Basta sfogliare le prime pagine dei quotidiani del mondo per rendersi conto, senza pregiudizi e paraocchi, che l’Italia vive un momento drammatico della propria credibilità. Il moltiplicarsi degli appelli del Capo dello Stato è direttamente proporzionale al danno inferto da questa lunga agonia del governo Berlusconi. Proprio la proiezione internazionale del Paese è quella maggiormente colpita. Berlusconi si vanta al telefono di avere la fila delle ragazze davanti alla sua camera ? Bene, diciamo che non c’è la fila di capi di governo che vogliono farsi fotografare con lui.
Sul rapporto con la Libia sono più ottimista. Non considero la passerella di Cameron e Sarkozy come un’indicazione di lungo periodo. Sarà il tempo a stabilire chi vuole mettersi al fianco della nuova Libia con continuità e amicizia e chi vuole trarne vantaggio immediato, magari perchè in campagna elettorale.
Lunedì 19 al vertice ONU sulla Palestina di nuovo l’Italia è assente. Come si delinea la politica italiana nell’area mediterranea?
L’Italia ha un destino nel Mediterraneo che le è assegnato dalla geografia. E dalla geografia la politica non può scappare. Come altri, più di altri Paesi, l’Italia sta cambiando un’agenda che era prima tutta schiacciata sul contratto politico fra stabilità delle autocrazie e difesa da immigrazione e fondamentalismo ad un’altra che scommette sulle possibilità aperte dalla primavera araba. Credo però che questo governo non sia il più adatto per interpretare una nuova fase. Lo dimostra anche una posizione non più equilibrata sulla vicenda israelo-palestinese che ha visto il Premier italiano schiacciato sulle posizioni più oltranziste di Netanyahu.
Che conseguenze porta la perdita di credibilità di Berlusconi e del governo nei confronti dei mercati finanziari internazionali?
Come ha scritto Boeri, oramai l’Italia paga tutti i giorni una “papi tax”. L’assenza di guida, l’incertezza delle scelte, le continue marce indietro, l’incapacità di dare al Paese un messaggio chiave di rigore, di equità e di riforme producono un danno reale, non solo politico, per ogni singolo italiano. Talvolta penso per paradosso che la popolazione italiana dovrebbe attivare una “class action” contro i danni concreti subiti dal comportamento di Berlusconi.
Helle Thorning-Schmidt in Danimarca riporta il centrosinistra al governo dopo 10 anni. Quanto potrebbe essere importante la definizione di un progetto comune fra i partiti europei di centrosinistra?
Auguri innanzitutto alla Danimarca riformista che vince. Una buona notizia, visto che invece è appena andato in crisi il governo riformista in Slovenia. E’ difficile dire quanto importante sia concretamente un programma comune dei riformisti per vincere le elezioni: spesso l’occhio degli elettori è tutto rivolto alle vicende interne e soprattutto all’andamento dell’economia. Ma noi pensiamo che avere una piattaforma comune sia comunque decisivo per offrire una lettura diversa del mondo e del ruolo dell’Europa in questo mondo nuovo. Veniamo dagli anni della paura, dell’Europa minima indispensabile, del ripiegamento nelle dimensioni nazionali. La crisi dimostra che la Grecia è scalabile, il Portogallo è scalabile, l’Italia è danneggiabile ma l’Europa tutta intera no. E allora, sviluppo comune, governance politica vera, rilancio della crescita sono le componenti essenziali di un’Europa che guarda avanti. Se non ci si arriva attraverso la strada della passione politica per i valori europei, per il progetto federalista, ci si arrivi almeno attraverso la strada del realismo: l’Europa è oggi la dimensione minima di sovranità efficace per stare dentro alla globalizzazione, per darle un’anima, per non viverne solamente gli scossoni. Il ruolo storico dei riformisti in questa fase è proprio questo qui.
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