attualità, politica italiana

"Numeri senza politica", di Michele Prospero

I numeri ricevuti alla Camera, inferiori a quelli preventivati, per ora evitano a Berlusconi l’umiliazione della resa senza condizioni ma non gli garantiscono certo le basi di una politica efficace. Con margini sempre più risicati, il Cavaliere resiste al comando diun esecutivo screditato agli occhi del mondo. Oggi il sistema politico è paralizzato e sembra imboccare la scivolosa strada in cui la legalità dei numeri sfida la legittimità.unleader disperato e sempre più solo. Con numeri racimolati in modo sfacciato, egli irride alla maggioranza reale del Paese (quella emersa non solo nei sondaggi, che sono sempre fotografie meramente virtuali del consenso, ma nelle elezioni amministrative e nei referendum), fa sberleffi alle richieste, mai così esplicite, dei sindacati, della Confindustria, dei principali giornali di opinione. Tutti avvertono che esiste uno scarto enorme tra una società angosciata per un presente che promette solo tempeste per colpa di un governo inetto e il rifugio di comodo dietro la forza legittimante dei numeri. I numeri sono l’essenza della democrazia ma diventano uno schermo assurdo quando il rito stanco dei voti di fiducia riscossi in aula contrasta in maniera provocatoria con la sostanza più autentica della democrazia parlamentare. Nessuna democrazia sana, con partiti autentici e leader con un brandello di senso dello Stato, può tollerare la sordità assoluta della maggioranza verso i segnali inequivocabili dei costi economici enormi determinati dalla caduta irreparabile di ogni prestigio del leader.
Le forzature di numeri che si convertono in una obbedienza cieca non possono giustificare una cupa indifferenza dinanzi al disastro economico, alla bancarotta finanziaria, alla sofferenza delle famiglie e delle imprese. Se il Paese reale va a rotoli, se il sistema istituzionale è minato dalla esplosione di insanabili conflitti di potere, i numeri non possono da soli autorizzare la distruzione della convivenza civile. Nessun malinteso principio di maggioranza può legittimare la dissoluzione delle basi civili, istituzionali ed economiche del Paese.
L’opposizione sa bene che, anche se manipolati, comprati o coartati, i numeri in aula sono imprescindibili e che non ci sono alternative al principio di maggioranza. Una incalzante iniziativa politica per cambiare i numeri è quindi la sola prospettiva efficace. Anche la mobilitazione di massa nel Paese ha come obiettivo principale quello di determinare il mutamento della maggioranza e non certo quello di agitare una cieca contrapposizione
tra piazza e palazzo. Questa polarità regalerebbe a Berlusconi l’arma della legalità e alle opposizioni la macchia della sedizione. Solo nuovi numeri in aula potranno invertire la rotta e licenziare Berlusconi, la cui resistenza non può essere infinita.
Non sono molte le alternative che oggi si dischiudono dinanzi al Pdl e alla Lega. È palpabile a destra una suprema (e politicamente insana) vocazione al martirio che induce una flaccida classe dirigente a bruciare a fuoco lento insieme al leader padrone. Ma la spinta di fenomeni economici e sociali dirompenti eroderà anche questa inclinazione al suicidio.Un leader vero dovrebbe avvertire lui stesso l’esigenza di non coinvolgere se non
il paese (nozione troppo astratta per il Cavaliere) almeno la sua creatura politica nel disastro. Ma Berlusconi non è un leader e quindi non ragiona nei termini alti della politica. Il suo stesso soggetto politico rischia così di dileguarsi. In politica non esiste come praticabile la scelta in favore di una morte assistita. Se nel Pdl e nella Lega ci sono spezzoni capaci di pensare in termini politici, dovrebbero resuscitare la prima regola di ogni politica: schivare la deriva, evitare il tracollo. La convincente forza persuasiva del disastro economico e sociale indurrà alcuni settori della destra alla resa dei conti finale con il capo-padrone. L’istinto di sopravvivenza, se un progetto politico coerente fa difetto, dovrebbe spingere a staccare la spina. Il Pdl ha solo un modo per sperare di non dileguarsi: partecipare alla rimozione del capo. E anche la Lega se aspira a un domani non ha alternative al parricidio. Questa destra potrà conquistarsi un briciolo di futuro nella politica di domani solo se Berlusconi e Bossi saranno travolti dal medesimo destino.

L’Unità 23.09.11

******

“Ora Giulio è nemico”, di Federica Fantozzi

Giulio parla male di me in Europa, dice che ho peggiorato la manovra. È intollerabile. Ora basta. Devo riprendere in mano l’economia…». L’ira gelida di Berlusconi sul ministro assente è l’ultimo paradosso della maggioranza: si salva Milanese sul filo del rasoio ma si torna a parlare delle dimissioni di Tremonti. Finisce peggio una giornata cominciata male. Alle nove del mattino, con una pila di fogli e tabelle sbattuta sul tavolo e un sorrisetto tirato del premier. «Vi annuncio che Tremonti stamattina non sarà con noi». È cominciato così, di buon’ora, il consiglio dei ministri che ieri ha preceduto il voto parlamentare su Milanese. All’ordine del giorno l’approvazione della nota aggiornativa del Def, il documento di programmazione economico finanziaria, messa a punto da Via XX Settembre. Solo che a discuterne con i colleghi il ministro Tremonti non c’è: è in volo per gli
Stati Uniti. Assenza giustificata, per carità, la riunione del Fmi, ma non meno dolorosa per i colleghi. I quali, anziché un interlocutore in carne e ossa, si ritrovano tomi e faldoni consegnati belli e pronti per la ratifica.
Quel che c’è bene, quel che non c’è pace. E Berlusconi ha espresso tutta la sua irritazione: «È un accentratore, non può comportarsi così. Deve venire qui e spiegarci le sue scelte: la politica economica si fa a Palazzo Chigi e non nel suo ufficio». Via via che scorrono le pagine e le cifre, il malcontento per la «prepotenza» di Tremonti si fa palpabile. L’umore della riunione vira al nero. Diversi ministri tra cui Romani, Bernini, Carfagna, fanno delle rimostranze. Letta tenta invano di mediare. Il veneto Galan, che in passato ha
polemizzato con Tremonti accusandolo di aver «commissariato» il governo, torna a parlare dell’esigenza di «collegialità» in un momento così difficile. In ordine sparso tornano concetti come lo spacchettamento del Tesoro, la riorganizzazione delle deleghe, la redistribuzione degli incarichi. In realtà, ciascuno è consapevole dell’impasse. Sarebbe un sollievo liberarsi dell’ingombrante Superministro. Però non possono. Ragionano di un depotenziamento che non sono in grado di portare a termine.
Ma certo, il vaso è colmo. Non basta lo sfogo di Berlusconi riferito da uno dei partecipanti alla riunione:
«Se la situazione economica mondiale non fosse quella che è, con i mercati in fibrillazione e gli occhi delle agenzie di rating puntati addosso, le chiederei io le dimissioni di Giulio…». Nel pomeriggio al vertice il premier
rincara la dose: «Tremonti parla male di me in Europa, dice che ho peggiorato i conti. È ora di ragionare di dimissioni.E di riprendere in mano l’economia». All’ordine del giorno: dismissioni dei beni pubblici e privatizzazioni. A mandarlo fuori dai gangheri però pare sia stato un controllo dei voli: il ministro avrebbe preso un volo di linea Usa delle 11,10. Con un volo di Stato, è la tesi del Cavaliere, avrebbe potuto conciliare tutto.
I veleni filtrano a Montecitorio. L’assenza suscita commenti al vetriolo. Martino la considera «inelegante. Santanché, fedelissima del premier, scandisce alle agenzie: «Noi ci abbiamo messo la faccia, lui no. È umanamente vergognoso». Crosetto, il sottosegretario che definì «da psichiatria» la sua manovra, usa toni molto forti: «Il giudizio sul ministro l’ho già espresso, ora aggiungo quello sull’ uomo: la sua assenza è un forte indicatore del valore». Poi chiede una cabina di regia: «Considerata la totale assenza di idee di Tremonti e la mancanza di dialogo con il paese reale, serve un tavolo immediato e permanente a Palazzo Chigi». Il partito
dei nemici di Tremonti è tornato. L’assalto finale è cominciato. Come finirà?

L’Unità 23.09.11