A Lampedusa sono esplosi gli errori e i pregiudizi che da decenni accompagnano le scelte italiane
in fatto di immigrazione. Un Paese incapace di accogliere dominato dalla cultura del respingimento. Se un giornale democratico, progressista e – addirittura! – “ di sinistra” titola: «Caccia ai clandestini», qualcosa di terribile sta accadendo, e forse è già accaduto. Consideriamo quel titolo. Certo, potrebbe giustificarsi con la volontà di descrivere semplicemente un fatto, connotandolo di una qualche riprovazione morale: ma temo che il risultato sia esattamente l’opposto. Se, infatti, si fosse scritto, che so, “violenze” o “aggressioni”, già sarebbe stato diverso perché in quelle due parole viene evidenziato il ruolo dei responsabili e, di conseguenza, quello delle vittime. “Caccia” è già diverso. Intanto perché evoca una dimensione ferina e, dunque, ulteriormente mortificante il bersaglio di quella attività venatoria; e, poi, perché introduce un elemento esotico o comunque talmente anomalo da risultare quasi irreale.
Possiamo sbagliarci, ma questa è la sensazione: tanto più se l’obiettivo sono “i clandestini”. È un termine contro il quale ci battiamo vanamente da tempo e che, fino a qualche anno fa, era totalmente infondato sotto il profilo giuridico dal momento che non esisteva nel nostro ordinamento il reato di clandestinità. Ora, anche questa ulteriore lesione è stata inferta al nostro sistema di diritti e garanzie e, dunque, il ricorso a quel termine ha – sotto l’aspetto penale – una qualche plausibilità. Ma nella sua dimensione sociale si tratta di un termine esclusivamente di natura denigratoria e discriminatoria. Sono forse “clandestini” quei bambini e donne e uomini che, sotto i fari delle nostre polizie e sotto i riflettori delle nostre televisioni sbarcano a Lampedusa, col volto e il corpo esposti alla più crudele visibilità? Il termine clandestino evoca immediatamente, più che un generico pericolo, un’insidiosa minaccia portata attraverso la cospirazione e la trama occulta. Clandestini, nel senso comune e nel linguaggio pubblico, sono oggi i fuggiaschi e i richiedenti asilo, coloro ai quali è scaduto il permesso di soggiorno, quanti hanno perso il posto di lavoro e i minori che compiono diciotto anni e risultano privi dei requisiti di legge. Una parte di questi si trovano da tempo a Lampedusa. Ed è bastata una scintilla per incendiare l’isola.
È bastato far valere un punto del recente accordo Italia-Tunisia (rimpatri diretti verso il Paese di origine) perché si scatenasse la rivolta. Una rivolta motivata, da un lato dall’abbandono e dalla disperazione e, dall’altro, dal fallimento del sistema di accoglienza lampedusano. Un apparato, quest’ultimo, affidato interamente alla spontaneità e alla filantropia degli abitanti dell’isola che, armati di “buona volontà” e di “santa pazienza”, in questi mesi di continui sbarchi non si sono mai voltati dall’altra parte (salvo, evidentemente, poche eccezioni). La loro è stata l’attesa estenuante e ostinata di un intervento decisivo da parte del governo italiano in grado di far fronte a quella “emergenza umanitaria” (così a febbraio era stata definita la situazione). E in questi mesi qualcosa in effetti è stato fatto: rilascio dei permessi di soggiorno temporanei (23mila), distribuzione sul territorio italiano delle persone sbarcate, accordo Italia-Tunisia.
Ognuno di questi provvedimenti si è però rivelato o incompleto o inefficace. Per dirne una, i permessi temporanei rilasciati fino al mese di aprile non hanno garantito alcun tipo di presenza legale sul territorio oltre la loro breve durata. Bisogna poi ricordare il fine di quella misura: consentire ai migranti (principalmente tunisini) di muoversi nell’area Shengen, cosa in realtà resa improba da molti fattori e, in particolare, dagli ostacoli posti dagli altri Stati. Inoltre il sistema di accoglienza gestito dal governo italiano è apparso subito inutilmente macchinoso: basti pensare alla spericolata serie di acronimi attribuiti ai differenti centri di accoglienza (Cie, Cara, Cda, Cai, Ciet… e perché no Cippa Lippa?).
Se l’idea iniziale era quella di rispondere con strutture diverse a diverse condizioni, oggi risulta palese che le differenze si limitano alle sigle: le condizioni materiali e psicologiche delle persone trattenute sono generalmente disperate a prescindere dal nome del luogo. Infine gli accordi Italia-Tunisia dell’aprile scorso, appena rinnovati, sembrano rivelarsi efficaci solo sotto il profilo della repressione. Ma perfino in questo ricorso alla mano pesante, emerge la cialtroneria di una politica dell’immigrazione grossolana e impotente. Lo Stato che garantisce la sicurezza (guardandosi bene dal garantirla ai migranti) è plasticamente rappresentato dal delirio verbale e cinetico di quel sindaco che mostra – più pateticamente che minacciosamente – la sua mazza da baseball.
L’Unità 23.09.11