La lettura romana delle vicende leghiste illumina solo un emisfero dell’attuale pianeta padano. E non è neppure quello prevalente e decisivo. Bossi contro Maroni, cerchio magico contro maroniti. La Lega, un partito come gli altri, è il sottotesto di questa narrazione giornalistica, con le stesse dinamiche di potere degli altri. Il che è pure un po’ vero. Uno dei problemi del partito di Bossi è, infatti, quello di essere diventato forza di potere, capace di esercitare la sua influenza nei Palazzi romani.
Come gli altri partiti, è soggetto a essere osservato con le lenti della lotta di potere intestina, con tutto il repertorio di ambizioni, congiure, colpi bassi, veleni. Ciò nonostante, è altrove che occorre analizzare la Lega e la crisi che l’attraversa.
È il suo progetto che non convince più. Che non funziona più, proprio nel famoso “territorio”, dove anche i suoi avversari ne ammettono un considerevole radicamento. Cos’è, dunque, che sta venendo meno, e in modo perfino precipitoso?
La fatica fisica di Umberto Bossi è lo specchio implacabile di un corpaccione – il partito più vecchio, dopo quello radicale, sulla scena politica della seconda repubblica – che arranca.
Il suo ormai incompresibile linguaggio – non solo per via dei problemi fisici che lo tormentano – è il riflesso di una mistica confusa, che si sbiadisce, una mistica di cui egli è ed è stato l’incarnazione e che era l’amalgama di realtà territoriali diverse, era l’ideologia aggregatrice di regioni orgogliose della propria singolare identità storica come la Lombardia, il Piemonte, il Veneto, era il filo che collega città grandi e piccole fiere del proprio campanile e della propria torre, province di mare, di montagna, di pianura.
Il fallimento del raduno leghista a Venezia, quest’anno, non è semplicemente un insuccesso politico stagionale, ma segna plasticamente l’esaurimento di una “narrativa” che, intorno alla figura, alla biografia, alla gestualità, del suo capo incontrastato e indiscusso, ha consentito di costruire una realtà fittizia – la Padania – al cui interno problemi cogenti e reali avrebbero dovuto trovare soluzione.
Oggi Bossi non è più in grado di rimotivare e rilanciare la sua “invenzione”. E Maroni non è capace di proporre un disegno alternativo e prospettico, altrettanto attraente e coinvolgente. Per questo la scalata del ministro degli interni non procede. Si sente dire che i maroniani – consapevoli di non potere contare su una leadership carismatica, semmai Bobo prenderà il posto dell’Umberto – stiano costruendo la trama di una “nuova” Lega: avulsa dal credo padano e lontana da ogni sia pur larvata tentazione secessionistica, ma basata su un forte pragmatismo, figlio del “buon governo” degli amministratori locali leghisti.
Ammesso che un simile disegno sia in cantiere, basterebbe a colmare il vuoto delle troppe promesse politiche inesaudite e a compensare la delusione di una base sempre più a disagio per l’inspiegabile (pertanto opaca e sospetta) subalternità di Bossi a Berlusconi e di Maroni alle logiche di potere romane? La vulgata del “buon governo leghista” è in realtà anch’essa sottoposta a un severo esame da parte degli elettori del centrodestra.
Ci sono amministratori popolari, come il vicesindaco (e reale sindaco) di Treviso, Giancarlo Gentilini, che ama definirsi «federalista convinto, ma federalista italiano» e ha la forza di dire che «non c’è più la Lega delle origini», senza nascondere la portata della crisi e dei suoi responsabili: «Certo stiamo vivendo un momento particolare, e io da un po’ dico che ci vuole una rivoluzione nel cuore della Lega. Dobbiamo riprendere la carica rivoluzionaria, la gente ci chiede di cambiare, a partire dall’alto».
E c’è il presidente della provincia di Treviso, Leonardo Muraro, sempre più contestato dai suoi elettori, ultimamente inviperiti per la stangata sugli automobilisti (il raddoppio dell’Ipt, Imposta provinciale sulle trascrizioni). Un altro figlio della Marca, Luca Zaia, da Conegliano, decimo presidente della regione Veneto, è per molti suoi elettori una grande delusione. I veneti si chiedono: che cosa è cambiato con lui alla presidenza? Dov’è la sua impronta? A me che l’ho votato, che cosa è arrivato di diverso? Notizie, poi, come il milione di euro spesi per il restyling di palazzo Ferro- Fino, la sede della Regione, e gli 80mila per rifare il buvette, non aiutano a rafforzarne l’immagine. E parliamo del Trevigiano, il cuore della Liga veneta, e di una regione, il Veneto, in cui la Lega avrebbe pure potuto correre da sola, conquistando il governo della Regione.
Questi dati, da soli, ci dicono come il panorama degli amministratori leghisti sia distante dalla mitologia dominante fino a qualche mese fa.
Di qui il disincanto crescente dell’elettorato “padano”. Che difficilmente cambierà bandiera, tuttavia. Caso mai resterà a casa, se si voterà, e il centrosinistra perderà tempo se penserà di star fermo sotto l’albero aspettando che cadano i frutti leghisti. «Mal che vada, finché ci sarà Bossi, la Lega porterà a casa il suo sei/sette per cento», avverte Fabio Fioravanzi, star televisiva veneta, che conosce come pochi la scena del centrodestra della sua regione. Purché sia l’Umberto, e non il Trota, il Bossi di cui parla Fioravanzi.
«Nessuna eredità dinastica. Renzo potrà essere eletto in parlamento, e perché no? Ma la leadership, quella no», dice Fioravanzi. Dunque, né congiure di palazzo marioniane, né leadership “diffusa” degli amministratori, né passaggi dinastici. Anche nel suo “territorio” la Lega sa di essere un partito del leader: dopo di lui il diluvio.
da Europa quotidiano 23.09.11
******
“Nord in fuga dal Carroccio”, di Paolo Natale
La Lega di lotta e di governo perde i pezzi. E li perde sia tra chi ne enfatizza il ruolo di “lotta”, sia tra chi ne sottolinea il ruolo di fedeltà al governo.
Gli elettori leghisti della prima specie, coloro che hanno come reale obiettivo la terra promessa, la Padania, o quanto meno un forte federalismo, almeno fiscale, sono da mesi in tumulto per il mancato rispetto della loro “piattaforma” irrinunciabile.
Gli elettori della seconda specie, coloro che pensano al movimento leghista come a una sorta di nuova Dc, legata alle tematiche locali ma con l’obiettivo di far funzionare finalmente il mondo produttivo, vedono con raccapriccio una forte incapacità del governo di snellire il paese, di dargli una forma più moderna e competitiva.
Sganciati dall’economia di sussistenza, troppo “meridionale”. Il malcontento dunque serpeggia tra le fila, come avrebbe detto Renato Pozzetto. Fino alla primavera scorsa, l’appeal elettorale della Lega era in costante e significativa crescita.
Da poco più dell’otto per cento delle politiche 2008, le intenzioni di voto prima e i comportamenti poi, alle europee e alle regionali dei due anni successivi, rilanciavano il partito nordista oltre l’asticella del dieci, con punte sfolgoranti in Veneto, in Piemonte e perfino sotto la linea gotica. Oserei quasi dire, oltre la stessa Padania.
E anche i cittadini meridionali vedevano nella Lega un movimento politico (quasi) da imitare, nella sua estrema capacità di rispondere puntualmente ai bisogni espressi dalla popolazione di riferimento. Tanto che da più parti si ipotizzava la nascita di una “Lega del Sud”, capace di entusiasmare anche i cittadini di quelle aree.
Poi, poco alla volta, un po’ di questo entusiasmo ha cominciato a venire meno. L’appiattimento sulla fedeltà a Berlusconi, comunque e dovunque, ha iniziato a far nascere un po’ di malessere tra l’elettorato antico e nuovo, tra gli adepti dell’ultima ora e tra gli incalliti fedeli. Che si sfogavano nelle radio e nelle lettere al giornale, e disertavano i tradizionali appuntamenti, le adunate di Pontida o di Venezia. Che non riconoscevano quasi più la consueta abilità del loro leader naturale di dettare l’agenda, come quasi sempre aveva fatto nei momenti cruciali della crescita.
Se ne è avuto un primo puntuale riscontro nelle amministrative di maggio, quando anche nelle consuete roccaforti leghiste (Novara innanzitutto, la città di Cota) sono cominciate le emorragie di voti, le perdite di consensi. Verso l’astensione, in parte, ma anche verso i candidati sindaci di altri schieramenti, a Milano, a Torino, in alcuni comuni più piccoli in Veneto, in Lombardia, in Piemonte.
I luoghi dove maggiormente si stava instaurando una nuova egemonia, che non ha però fatto in tempo a consolidarsi. Diviso all’interno tra quelli vicini a Bossi, più tradizionalisti, e quelli che vedono in Maroni il leader di una Lega nuova, più pragmatica e meno enfatica, il popolo leghista si trova oggi disorientato, insicuro del proprio cammino futuro, in balia di un accordo con il premier che non soddisfa le sue aspettative, né in un senso né nell’altro.
Oggi anche il movimento padano soffre una decisa crisi di consenso negli orientamenti di voto, ed è in procinto di tornare alle cifre di qualche anno fa, intorno al 9 per cento dei consensi. La fedeltà di voto leghista appare nelle ultime indagini demoscopiche tra i più bassi, vicini al 50 per cento del precedente elettorato, laddove il Pd e gli altri partiti di centro, di centrosinistra e sinistra (pur nell’elevata indecisione) si fermano almeno 15 punti sopra quella soglia.
E anche tra chi si dichiara ancora leghista, il disappunto nei confronti di Berlusconi si incrementa quotidianamente: almeno un terzo dichiara che il suo giudizio nei confronti del premier è molto peggiorato dopo le ultime vicende; oltre la metà pensa che i comportamenti di Berlusconi siano molto preoccupanti; la fiducia nella sua figura come capo di governo è ancora più bassa.
Continuando su questa incerta strada, è altamente probabile che la Lega incontri un drastico ridimensionamento, non solo elettorale, ma anche nel ruolo di riferimento dei cittadini del Nord che avevano creduto in lei, nella sua capacità di dare finalmente una svolta a questa politica centralizzata e scarsamente legata al territorio.
Il partito del Nord rischia di trasformarsi, agli occhi dell’opinione pubblica settentrionale, in una riedizione in piccolo delle antiche manovre democristiane: il potere purchessia.
da Europa Quotidiano 23.09.11