.La prima elementare della scuola di via Paravia alla periferia di Milano è stata smembrata non solo perché era piccola, ma anche perché c’erano solo 2 studenti italiani su 18. La stragrande maggioranza degli altri, cioè dei bimbi stranieri, a quanto è dato sapere, era nata in Italia e aveva pure frequentato l’asilo, quindi non aveva handicap linguistici. Sul banco degli accusati è tornato il tetto del 30% di studenti stranieri imposto alle scuole.
Certo, va riconosciuto che quel tetto è diventato flessibile: può ora tenere conto delle difficoltà reali e non di quelle solo ipotetiche dei piccoli immigrati. Ma allora perché non togliere del tutto il criterio della nazionalità e valutare piuttosto le sole competenze? È la multietnicità che va evitata, che fa comunque paura? Si osserva che i genitori italiani scappano dalle scuole con troppi stranieri: dovremmo precisare «poveri». Infatti, i genitori italiani, quando si trasferiscono all’estero, iscrivono i figli in scuole internazionali e li collocano felicemente in classi in cui possono trovarsi ad essere anche gli unici bimbi italiani in una congerie di nazionalità diverse. Molti genitori, anche in Italia, fanno di tutto per iscrivere i loro pargoli in istituti internazionali. Senza alcun timore di traumatizzare i piccoli. Lo fanno solo in costose scuole straniere frequentate da eleganti ragazzini? Non necessariamente. L’esperienza positiva dell’asilo Bay, nel quartiere di San Salvario a Torino, dimostra che, se ben gestiti, gli asili pubblici multietnici piacciono molto a quei genitori italiani che vogliono semplicemente bambini aperti al mondo. E magari chi manda i figli in scuole con ragazzi stranieri può ottenere pure un altro inatteso vantaggio: compagni un po’ più inclini alla disciplina. Infatti una recente ricerca del Cnel ha reso noto che le famiglie immigrate criticano la scuola italiana perché da noi si studia troppo poco e non c’è rispetto per gli insegnanti.
Sappiamo, tuttavia, che gli studenti immigrati hanno in media qualche difficoltà in più, ma questo vale proprio per chi non ha avuto l’opportunità di entrare e restare nelle scuole italiane fin da piccolo. Quindi, che un bambino di via Paravia sia dovuto tornare a studiare in Marocco invece di frequentare la stessa scuola elementare della sorella maggiore non è una buona notizia. Tutto sommato, però, in questo tipo di misure almeno un piede la ragione lo ha posato: nel voler mischiare gli studenti, purché non si creino disagi e abbandoni scolastici,c’è del buono.
Non si può dire lo stesso dei progetti di legge della Regione Veneto che assegnano a chi risiede in regione da 15 anni una corsia preferenziale per l’accesso ai servizi sociali, inclusi asili, servizi alla prima infanzia, buoni scuola. Che questa mossa giovi al benessere dell’economia locale è infatti molto dubbio. Il rapporto Excelsior-Unioncamere-Ministero del lavoro anche quest’anno ci informa della carenza di candidati italiani per alcuni tipi di lavori. Mancano ad esempio infermieri, e noi sappiamo che stiamo importando personale sanitario, in particolare donne, dall’Europa dell’Est. Immaginiamo un’infermiera romena anche mamma, che probabilmente non può contare su una rete locale di familiari, e si sente respingere la domanda di iscrizione del proprio bimbo al nido. Se lo sa in anticipo, in Veneto non ci va proprio. Il mercato del lavoro italiano è carente pure di farmacisti e metalmeccanici. Che diciamo al papà lavoratore, fosse anche italiano ma di Parma, che servirebbe davvero a Vicenza? Per il bene dei tuoi figli resta dove sei? Le identità, l’affetto per i propri luoghi è un sentimento apprezzabile purché non straripi in danno per la stessa collettività che si vuole privilegiare, purché lasci spazio alla ragione. Del resto lo stesso rilancio della secessione padana, in un’Italia già affollata di problemi, non appare il massimo della ragionevolezza.
In generale, quando si tratta di prendere decisioni, sarebbe opportuno avere chiara la scala di priorità dei nostri scopi e basare le nostre strategie su una preventiva analisi del contesto e della realtà. Ad esempio, sfoltire le carceri, prima ancora che una necessità di ordine pubblico, rappresenta un dovere morale, al quale il nostro governo è stato più volte richiamato. In linea teorica, quindi, fece bene a suo tempo l’allora ministro della Giustizia Alfano, a comunicare con soddisfazione che l’Italia era stata il primo stato Ue a conformarsi alla decisione-quadro che consente di spedire nelle carceri del paese di origine le persone condannate o già detenute in un altro paese membro. Ma i sindacati degli agenti penitenziari sollevarono ben presto il dubbio che il provvedimento potesse rivelarsi un boomerang: perché i detenuti italiani all’estero, almeno secondo i loro dati, erano ben più numerosi di quelli stranieri in Italia.
L’impressione generale è che dietro gli scopi dichiarati, spesso sensati, di questi e altri singoli provvedimenti in materia migratoria si nasconda un altro scopo, perfettamente razionale ma rischioso: incassare voti stigmatizzando gli immigrati. La strategia è apparsa per molto tempo pericolosa per i suoi effetti collaterali, di cui abbiamo dato qualche piccolo esempio, ma pur sempre un efficace strumento acchiappavoti. I risultati delle elezioni danesi cominciano a far scricchiolare anche questa ipotesi. Non solo lo xenofobo Partito del Popolo Danese perde consensi, ma 3 elettori su 4 si sono dichiarati stufi della sua influenza politica negli ultimi 10 anni. Anche se non lo fanno sugli scudi di una vittoria gloriosa, i socialdemocratici e i loro alleati vanno al governo. Nel programma elettorale della coalizione vincente c’era anche qualche piccolo sconto sulla severità in tema di immigrazione. Questo non significa che avercela con gli immigrati non continui a pagare elettoralmente, in Danimarca come altrove. Ma in tempo di crisi le priorità sono altre, gli elettori chiedono misure efficaci per rilanciare l’economia e ridurre l’insicurezza. Chiedono misure impregnate di ragione? E di una ragione non ristretta all’orizzonte della convenienza elettorale immediata? Non è detto, ma di queste abbiamo urgente bisogno. E ovviamente di una leadership politica che sappia spiegarle e renderle accettabili all’opinione pubblica.
La Stampa 21.09.11