È faticoso far capire ai tedeschi che salvare l’euro è interesse anche loro. Per riuscirci Angela Merkel alza il tono; finita la tornata di elezioni regionali che ha ammaccato non poco la sua maggioranza – segnando un complessivo spostamento a sinistra – potrà forse impegnarsi di più. La prima cosa da mettere in chiaro è che finora dalle traversie dell’euro la Germania ha guadagnato. Il soccorso a Grecia, Irlanda e Portogallo finora non è costato nulla, perché fatto di prestiti a tassi remunerativi. Si aggiunge il vantaggio netto dell’isteria dei mercati, che mentre spingeva in su gli interessi sui titoli di Stato dei Paesi deboli, ha abbassato i rendimenti di quelli tedeschi.
Grazie a questi tassi anormalmente bassi (l’altro lato dello spread che preoccupa noi italiani) il governo di Berlino ha risparmiato 3,4 miliardi di euro in interessi quest’anno, e potenzialmente 32,8 nell’arco di sette anni, secondo i calcoli di due noti centri studi tedeschi, quelli di Halle e di Kiel. Se ci saranno futuri oneri da sopportare, da parte di tutti i Paesi membri, per salvare l’euro, la quota a carico della Germania andrà valutata anche su questo sfondo.
D’altra parte, è difficile a tutti gli europei orientarsi, quando perfino gli esperti non concordano sulla via d’uscita meno costosa. Economisti famosi fanno a gara a indicare soluzioni divergenti. Solo sui giornali di ieri l’americano Nouriel Roubini sentenziava che per la Grecia non c’è nulla di meglio che tornare alla dracma, mentre l’anglo-olandese Willem Buiter ribatteva che così si metterebbe quel Paese in ginocchio in cambio di vantaggi effimeri.
Tuttavia per l’insieme dell’area gli studi concordano: una rottura sarebbe la catastrofe peggiore, con una recessione di portata simile a quella del 2009 (sentiremo oggi che ne dice il Fmi) e un futuro più incerto. Proprio perché i primi da convincere sono i tedeschi la banca svizzera Ubs valuta il costo di una rottura dell’euro cifrandolo come spesa media a carico di ciascun cittadino della Germania: 6-8.000 euro in caso di ritorno al marco. Sarebbe molto inferiore, forse un decimo, il costo di una insolvenza dello Stato greco. È questa la soluzione di cui tutti parlano sottovoce, ma che occorre non menzionare ufficialmente non tanto per non agitare i mercati, che lo sanno benissimo, quanto per buone ragioni politiche. Che la Grecia risani il bilancio e ristrutturi la propria economia è una necessità in ogni caso; non poteva tirare avanti a lungo un Paese che, nel 2010, consumava 110 per ogni 100 che produceva all’interno. Non si può offrire una sanatoria ad Atene prima che abbia fatto tutto il necessario; né prima che sia chiaro che si tratta davvero di un «caso unico» come si è affermato negli ultimi vertici europei. L’Irlanda sta già cavandosi dai guai da sola, il Portogallo ha forse imboccato la strada buona (entrambi i Paesi dopo nuove elezioni e un cambio di governo); ma hanno bisogno di altro tempo. Occorre poi essere pronti a resistere al contraccolpo del default greco con risorse sufficienti per fermare attacchi dei mercati a Italia e Spagna; pronti, anche, a ricapitalizzare le banche europee, specie le francesi, gravate da troppi titoli di Stato greci in cassa. Sarebbe un’Europa, come dice un recentissimo rapporto dell’americana Citibank, del «chi rompe paga e i cocci sono suoi»; dove cioè i governi se sbagliano fanno bancarotta ma senza conseguenze devastanti. Occorre però che il «minimo necessario» su cui l’Europa riesce a trovare l’accordo si trovi a un livello più alto di quanto è avvenuto finora. Quanto tempo si potrà andare avanti così? Qualche mese, dicono i meno pessimisti; oppure qualche settimana. Un cambio di prospettiva in Italia certo aiuterebbe.
La Stampa 20.09.11