attualità, politica italiana

"Leghisti nel posto sbagliato", di Giuseppe Vespo

Per ora è solo un «modello 45»: un’indagine senza ipotesi di reato né indagati. Ma è il segno che alla procura di Monza non è passato inosservato l’incontro di lunedì tra Bossi, Calderoli e i 14 rappresentanti delle Province a guida leghista, riuniti nelle nuove sedi ministeriali di Villa Reale manco fossero gli uffici politici
del Carroccio. «O è un ministero o è una sede di partito», commenta una fonte che spiega come le due cose non possano essere confuse. Nel fascicolo al momento ci sono solo i ritagli dei giornali che parlano della riunione di Bossi & Co., ufficialmente convocata per discutere l’abolizione delle Province. Non che qualcuno sia preoccupato per la poltrona, si sono affrettati a spiegare gli amministratori padani. Semmai il
timore è per il vuoto di rappresentanza che si potrebbe lasciare nei territori. Un sentimento certamente trasmesso al ministro Tremonti, anche lui – brevemente – in visita negli uffici ministeriali assegnati guarda caso proprio all’Economia, alla Semplificazione (Calderoli) e alle Riforme (Bossi). Le tre dependance istituzionali, pegno pagato da Berlusconi al Carroccio in cambio del suo sostegno, avevano già irritato il presidente Giorgio Napolitano, che alla vigilia dell’inaugurazione di fine luglio ha scritto al premier «una lettera contenente rilievi e motivi di preoccupazione sul tema». Ma nessuno evidentemente aveva considerato che, come riportato sui manifesti leghisti, «Quando un popolo come quello padano cammina, piega la storia». Nei giorni scorsi il dibattito è poi sfumato, complice il disastro che sta piegando i mercati
finanziari e le inchieste che da Monza a Napoli stanno piegando la politica. Fino a lunedì, quando la verve sui ministeri al Nord è ripresa proprio con la riunione della Lega, che stavolta ha fatto storcere la bocca a qualche pm: «Ma come!», commenta una fonte del Tribunale brianzolo, «sulla Villa Reale vedo la bandiera
italiana, ci sono i ministeri, non è di proprietà del Carroccio. E allora mi domando: chi paga?».

L’Unità 15.09.11

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“Il partito caserma che non hai mai tollerato il dissenso”, di Oreste Pivetta

Nella Lega un regime stile Pol Pot. Storia vecchia. L’accusa la pronunciò tredici anni fa un leghista importante, per quanto veneto, che rivendicando autonomia per il Veneto, venne immediatamente espulso dal partito di Bossi. L’ex leghista in questione si chiama Fabrizio Comencini, uomo che portava un filo di cultura politica sul Carroccio. Era un astro nascente: venne immediatamente abbattuto. Continuò nella politica senza grandi fortune. Comencini è uno dei tanti leghisti che alzarono la testa e che finirono presto
azzoppati: Castellazzi, Franco Rocchetta, Manuela Manin, Luigi Negri, tra gli ultimi il vicentino Davide Lovat (per la rivelazione di un miracolo che aveva trasformato un terreno agricolo in terreno edificabile a tutto vantaggio di un boss padano). Anche Miglio, l’ideologo degli inizi, lo studioso del federalismo, venne presto accantonato. Solo accantonato: era un professore e non sosteneva duelli al vertice. Si riparla di espulsioni… quando il partito è in crisi, si trascina nella pestilenziale alleanza con Berlusconi, si divide su tutto. Quando il “capo” conta meno e governa meno, lasciando per forza ma controvoglia spazio alle correnti, ai maroniani che rivendicano un ruolo più attivo e indipendente del partito, al “cerchio magico” di Calderoli, sempre più stretto a Berlusconi, mentre c’è una base che discute e che contesta, senza più speranze nelle rivoluzioni promesse da Bossi, immiserite in uno stanco federalismo che non vedrà mai la luce e in una targa affissa sui muri della Villa Reale di Monza, quella dei ministeri del Nord. Si riparla di espulsioni e il dito è puntato contro Maroni, in primo luogo, poi contro il sindaco Tosi, il veronese che contesta le manovre governative e già mette la parola fine al film berlusconiano, poi i sindaci leghisti in blocco, diffidati dal partecipare alle manifestazioni dell’Anci, che non gradisce ovviamente i tagli di Tremonti. Di Maroni ha detto Bossi: «È amico mio da sempre». Chiuso, a parole e per il momento, perché intanto la signora Bossi, e cioè, Manuela Marrone, avrebbe intimato al marito di cacciare Maroni e accoliti, gli altri eventuali traditori, oltre a Tosi, Fontana e Giorgetti, e intanto sul web imperversa da settimane Velinaverde, che si definisce «pagina di informazione per tornare alle origini della Lega Nord, a quella dura e pura di Bossi» e elenca malefatte di Maroni («Alì Baba e i quaranta Maroni insubri») e rappresenta in dettaglio il “sistema”, che il ministro avrebbe messo all’opera per controllare tessere e poltrone. Saranno anche questi momenti di battaglia politica, ma il metodo è quello della insinuazione, della calunnia, eccetera eccetera. Bell’aria sotto il Carroccio, che per l’altra parte si aggrappa al tandem Calderoli-Reguzzoni, con l’aggiunta di Rosi Mauro, più che vicepresidente del Senato ormai caritatevole guardiaspalle di Bossi (ha pure abbandonato Milano per avvicinarsi al capo, occupando una villa della ridente Gemonio), il “cerchio magico” che circonda Bossi e che la base non ama: sono loro, per definizione, i “poltronisti” per eccellenza, quelli che alla Legahanno fatto sempre finta di biasimare in sommo grado. Legato a Silvio, il partito di Bossi ha imboccato la china dell’autodistruzione. Ma non è solo la conclusione del ciclo berlusconiano. La verità è che la base sociale della Lega è mutata o ha mutato orientamenti: artigiani, piccoli industriali della provincia italiana, redditi fissi, ceti sociali in difetto di rappresentanza, se ce l’hanno fatta, ce l’hanno fatta da soli, lontanissimi dai propagandistici traguardi indicati da Bossi: secessione, indipendenza, Padania, persino federalismo con questo governo, non promettono più niente e se verranno i cinesi a salvarci cadrà anche l’ultimo tabù leghista.

L’Unità 15.09.11

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L`ennesima giravolta del senatur spiazza i “soldati” leghisti, di Michele Brambilla

C’ è sempre un momento, alle manifestazioni della Lega, in cui qualche pezzo grosso prende la parola e inveisce contro ì gìornalìsti: «Sì sono inventati spaccature al nostro interno, tutte balle, la Lega è unita!». E giù applausi perché l`indice di gradimento dei giornalisti, basso ovunque, nel mondo padano è sottoterra. Non sarà facile, però, replicare questa specie di gag ai prossimi comizi.

Le divisioni interne sono ormai alla luce del sole. Ieri ad esempio il sindaco di Varese, Attilio Fontana, ha dovuto dimettersi dalla presidenza dell`Anci, l`associazione nazionale dei comuni italiani, per aver deciso di non partecipare allo sciopero dei sindaci contro la manovra, programmato per oggi. Fontana era stato l`ideatore di questo sciopero.

Se ha deciso di non parteciparvi è solo perché lunedì il consiglio federale della Lega – massimo organo di partito – ha imposto ai sindaci tesserati di non aderire all`iniziativa dell`Anci. «Mi sono trovato mio malgrado di fronte a un bivio», ha scritto ieri Fontana in un comunicato, e per non essere espulso dalla Lega ha lasciato l`Anci.

Ma precisa di non aver cambiato idea sui motivi della protesta dei Comuni contro i tagli. E nel Varesotto quasi tutti gli amministratori locali leghisti sono con lui. Ieri sul sito web del quotidiano «La Provincia di Varese» il consigliere comunale varesino Gladiseo Zagatto («Bossi è mal consigliato»), il consigliere provinciale Marco Pinti, il capogruppo cittadino Giulio Moroni e il dirigente Marco Bordonaro hanno espresso senza timori la piena solidarietà a Fontana.

Poi c`è il caso Tosi. Lunedì scorso Flavio Tosi, il sindaco di Verona, in un`intervista al «Corriere della Sera» si è reso responsabile di lesa maestà: «Un ciclo è concluso – ha detto -. La cosa migliore sarebbe che Silvio Berlusconi decidesse di farsi da parte. Ma non nel 2013: il prima possibile». Per queste parole ha rischiato di essere espulso. Pare che il consiglio federale di lunedì, quello in cui si è deciso il diktat anti-sciopero dei sindaci, fosse stato inizialmente convocato proprio per buttare Tosi fuori dal partito. E pare che si sia poi deciso di sorvolare perché Tosi è un sindaco forte, con un grande seguito in Veneto e stimato anche da molti non leghisti, compreso il presidente Napolitano.

Sullo sfondo di tutto c`è la spaccatura, ormai evidente, tra i fedelissimi di Bossi e quelli di Maroni. Tra i due c`è sicuramente un`antica amicìzìa, ma c`è anche un dissidio politico ormai arrivato alla resa dei conti. Bossi è per la fedeltà assoluta a Berlusconi: c`è chi dice per l`aiuto che il premier gli assicurò dopo l`ictus di sette anni fa, c`è chi dice per un patto di ferro (e d`argento) stipulato prima delle elezioni del 2001: sta di fatto che Bossi non vuole abbandonare l`amico Silvio. Mentre Maroni pensa che, se la Lega non si smarca adesso, finirà con l`affondare con il premier.

Maroniani sono, per intenderci, Fontana e Tosi. Bossiani il segretario regionale veneto Gian Paolo Gobbo, sindaco di Treviso, e soprattutto l`ormai celeberrimo «cerchio magico», vale a dire un ristrettissimo gruppetto che ha preso in custodia un Bossi sempre più provato dai segni della malattia:

la moglie Manuela Marrone, il figlio Renzo, la vicepresidente del Senato Rosy Mauro, i capigruppo alla Camera e al Senato Marco Reguzzoni e Federico Bricolo.Dì questo «cerchio magico», che ormai blinda il Senatùr anche fisicamente con una marcatura stretta, i maroniani dicono (naturalmente a taccuini chiusi e microfoni spenti) il peggio che si possa dire.

La divisione maroniani-bossiani condiziona tutta la vita del partito. Ad esempio, tra poco si voteranno i nuovi segretari provinciali. A Brescia si scontreranno Fabio Rolfi (maroniano) e Mattia Capitanio (cerchio magico); a Varese le duè fazioni stanno scegliendo gli sfidanti, mentre in Val Camonica c`è grande fermento perché al congresso di fine mese sul banco degli imputati (l`accusa: scarsa presenza sul territorio) ci saranno l`assessore lombardo Monica Rizzi e nientemeno che Renzo Bossi.

«Il cartellino giallo ai Tosi e ai Fontana è quanto di più lontanamente leghista ci possa essere. Nel dna del Carroccio la difesa del locale viene prima di qualsiasi intesa romana», ha scritto ieri su Libero Gianluigi Paragone, ex direttore de «La Padania». E questo significa che quel che sta succedendo non è una bega da vecchia Dc, una divisione come ce ne sono in tutti i partiti.

In gioco c`è la stessa essenza, e forse la sopravvivenza, della Lega.

La Stampa 15.09.11