La crisi rivelatasi ogni giorno più difficile da sconfiggere anche ieri ha segnato un’altra giornata drammatica, con scene di guerriglia davanti alla Camera, in cui deputati sordi in gran parte alla gravità della situazione e scollati dalla realtà approvavano una manovra già quasi del tutto insufficiente. Ma invece di risposte, dalla classe dirigente stressata dalla febbre dei mercati che non danno tregua, affiora una sensazione di panico e immobilismo, senza neppure la capacità di confrontarsi con esperienza e analogie del passato.
A ben guardare, infatti, il dissesto nei conti dello Stato causato dal debito pubblico senza controllo si era manifestato già nel 1991 – ‘92, giusto vent’anni fa, determinando la terribile manovra del governo Amato, che portò a un prelievo diretto dai conti correnti bancari dei contribuenti. Di lì a poco il mix letale della corruzione crescente e della delegittimazione evidente della classe politica, a causa delle inchieste giudiziarie che investivano giorno dopo giorno leader, ministri in carica e interi gruppi dirigenti dei partiti, rese necessario una sorta di commissariamento dell’esecutivo, con l’avvento del governo tecnico guidato da Ciampi, e una forma di desovranizzazione del potere politico, passato sotto il controllo dell’Ue per riconquistare credibilità al Paese e guadagnarsi il biglietto d’ingresso nell’euro.
Tra allora ed oggi ci sono molti aspetti coincidenti che potrebbero far pensare alla possibilità di ripercorrere la via virtuosa e la serie di sacrifici che ci condussero fuori dai guai. Per cominciare, lo stato dei nostri conti è tale che s’è rivelato tuttora inadeguato qualsiasi intervento, compresa la quarta riscrittura della seconda manovra che la Camera ha approvato definitivamente ieri sera. Inoltre, senza voler generalizzare, o cedere a superficialità e qualunquismi, anche il livello della corruzione ha superato ogni limite: al di là del complicato contenzioso che ha al centro il presidente del Consiglio, ci sono in questo momento almeno tre inchieste che riguardano i vertici del centrodestra e due che puntano a quelli del centrosinistra, oltre a una miriade di indagini grandi e piccole negli enti locali, comuni, province e regioni, per non dire delle amministrazioni straordinarie, protezione civile, terremoti, calamità, e insomma iniziative urgenti che si trasformano in vergognose occasioni per accaparrarsi, troppo spesso illegalmente, fondi pubblici e appalti privilegiati. Per quanto l’azione della magistratura si riveli non sempre convincente e non goda più dello stesso sostegno di opinione pubblica su cui poteva contare vent’anni fa, quando i giudici di Mani pulite erano diventati gli idoli della gente comune, è impossibile credere – come Berlusconi dice e ripete tutti i giorni – che dietro ogni inchiesta ci sia un pregiudizio politico e un abuso di potere della magistratura.
Di qui – ed è la terza trasparente analogia tra allora ed oggi – il ritorno al governo tecnico: come ipotesi, come estremo rimedio, come voce che corre di bocca in bocca e trova eco anche nei discorsi dei leader, non solo d’opposizione. Si dice: se Berlusconi fa un passo indietro, spontaneo o «spintaneo» che sia, tutto potrebbe cambiare e si potrebbe anche discutere con serenità del modo di assicurare una via d’uscita plausibile all’uomo che bene o male ha condizionato quasi vent’anni di vita pubblica, e s’è trasformato nel simbolo della Seconda Repubblica come Andreotti lo fu della Prima. Ma ad escludere una prospettiva del genere, è inutile nasconderselo, è proprio il Cavaliere, con la sua personalità e il suo modo di fare, che appunto non hanno precedenti nella politica italiana. Va detto poi che questa storia del salvacondotto non è mai stata praticabile e non lo è neppure adesso, a meno di voler dimostrare che i magistrati, invece di essere mossi da obblighi di legge, sono sensibili a ragioni di parte e concederebbero all’opposizione ciò che hanno sempre rifiutato al premier.
Non resta che sia lo stesso Berlusconi, proprio perché a nessun costo intende farsi da parte, a governare le difficoltà. Per paradossale che possa sembrare, è l’unica possibilità, anche se questo richiederebbe da parte sua un passo assolutamente diverso. Il Cavaliere, dunque, affronti senza ulteriori indugi se ne è capace i suoi guai giudiziari, a partire dalla testimonianza fin qui rifiutata alla Procura di Napoli, sapendo che la conclusione del suo calvario non è vicina e proprio per questo necessita di maggior pazienza e senso di responsabilità. Nel frattempo, dimostri che ha veramente a cuore il futuro del Paese uscendo dalle incertezze. Il compito è chiaro; la gravità di quel che sta accadendo non consente più rinvii. Oggi più che mai, governare vuol dire fare quel che si deve, e non ciò che si vuole. Nei prossimi giorni, è ormai chiaro, potrebbe rendersi necessaria una nuova manovra. L’accelerazione del debito pubblico, che ieri ha fatto un altro pericoloso passo verso la soglia dei duemila miliardi di euro, dev’essere fermata a qualsiasi costo. Sono in ballo misure eccezionali, che saranno efficaci solo se si riuscirà a prenderle senza il ridicolo balletto a cui è toccato assistere per tutta l’estate. Per chiudere la voragine, solo per fare qualche esempio, presto potrebbe essere necessario alienare una parte del patrimonio del Paese, o riaprire la ferita sanguinosa delle pensioni. Se dopo vent’anni di cabaret, troppo spesso degenerato in brutto spettacolo, Berlusconi sarà in grado di uscire dal suo scollamento e chiudere da statista, anche le analogie che ora gli giocano contro, a sorpresa, potrebbero risolversi a suo vantaggio.
La Stampa 15.09.11