I tempi dell´emergenza scardinano le regole, distorcono le istituzioni, riducono i diritti. Inevitabile, si dice. Tesi assai discutibile, ma che comunque non esonera dall´obbligo di misurare gli effetti, anzi i guasti, che tutto questo produce, per avere cognizione della realtà e per prepararsi, se mai sarà possibile, a ricostruire un sistema di nuovo guidato dalla normalità democratica. Non è vicenda soltanto italiana. Ma, come purtroppo accade sempre più spesso, in Italia assume caratteri patologici e pericolosi, e sta determinando quello che ormai deve essere definito come un permanente stato di eccezione.
Tra luglio e agosto, sotto la pressione della crisi finanziaria e del diktat della Banca centrale europea, sono state messe a punto due frettolose “manovre” economiche, adottate con decreto legge e affidate poi a continue e sgangherate riscritture. Valutazioni di merito a parte, l´accelerazione impressa all´approvazione di quei decreti ha determinato un funzionamento del sistema parlamentare che accentua in modo inquietante la già evidente crisi della rappresentanza. L´urgenza di una risposta adeguata, pena il tracollo finanziario, ha infatti creato uno stato di necessità che si è tradotto in una “responsabilità” dell´opposizione a garantire l´approvazione delle manovre nei tempi più rapidi possibile. Ma, scontata la drammaticità della situazione, si può accettare senza una minima riflessione questa nuova istituzionalizzazione del ruolo dell´opposizione, che la vede obbligata ad una responsabilità senza potere? Si deve salvare la patria, d´accordo. Ma a quale prezzo?
L´opposizione ha oliato le procedure parlamentari, ha ritirato i propri emendamenti, ha rinunciato all´ostruzionismo. Ma questo suo ruolo “responsabile” ne ha sterilizzato la capacità di incidere sui contenuti di una manovra da tutte le parti ritenuta iniqua, inadeguata. Siamo così di fronte ad una responsabilità asimmetrica. Il governo parla ai suoi, li rassicura, confeziona i provvedimenti sui loro interessi, salvaguarda gli equilibri interni alla coalizione. L´opposizione ha la lingua tagliata, è costretta ad abbandonare gli strumenti – emendamenti, ostruzionismo – che in sede parlamentare sono i soli ad attribuirle un sia pur ridotto potere negoziale. È coinvolta nella responsabilità, ma esclusa dal potere di decisione. E il voto finale contro i decreti, di cui comunque ha consentito l´immediata conversione in legge, è poco più che una debole rivendicazione di identità.
Questa situazione è insostenibile dal punto di vista istituzionale. Al di là delle formule – governi tecnici o di salute pubblica o di transizione – proprio la durezza dei tempi impone che sia ricostruito il rapporto tra decisione e responsabilità. In democrazia, chi assume la responsabilità di un provvedimento nei confronti dei cittadini deve avere anche il potere di determinarne i contenuti. Se questo rapporto viene spezzato, non si viola soltanto una regola del gioco. Si lascia una parte dei cittadini priva di rappresentanza, perché in Parlamento nessuno è in condizione di parlare efficacemente in loro nome.
Una prima e immediata conseguenza di questa analisi, null´altro che la registrazione di quello che sta accadendo, riguarda il governo. Vi è ormai una ragione di politica costituzionale che impone il cambiamento. Se l´emergenza, più o meno permanente, è il dato che segna l´orizzonte politico e impone responsabilità comuni, la fase della decisione non può essere scorporata dal contesto complessivo, politicamente neutralizzata, e il suo prodotto imposto poi ad un Parlamento che non può intervenire su di esso, pena l´accusa di sabotare i superiori interessi della Patria. Questo richiede un governo diverso dove, appunto, decisione e responsabilità si ricongiungano, restituendo pure al Parlamento la sua vera funzione di legislatore. Altrimenti, gli equilibri istituzionali vengono sempre più logorati, corrodendo la stessa democrazia. Ricordate le avventurose apologie del bipolarismo con annesso decisionismo? Si diceva che, una volta scelto il governo dal voto popolare, l´esecutivo doveva lavorare tranquillamente, e i cittadini lo avrebbero giudicato alla fine della legislatura. Ma, questo, evidentemente, implicava che l´opposizione potesse fare in modo altrettanto pieno il proprio mestiere, prospettando quell´alternativa che poteva consentirle di divenire maggioranza. Schema per troppi versi ingannevole, ma che comunque svela l´inammissibile pretesa del governo di andare avanti come se nulla fosse accaduto, legando tuttavia l´efficacia della sua azione in tempi di crisi ad una sorta di eutanasia dell´opposizione parlamentare.
La crisi economica rende così più evidente, e più grave, una crisi della rappresentanza che si trascina da lungo tempo, e che l´ultima manovra ha messo clamorosamente in luce. Qui i diritti dei lavoratori sono grandemente intaccati, la condizione delle donne pesantemente peggiorata, come hanno mostrato benissimo su questo giornale Luciano Gallino e Chiara Saraceno. Ma in Parlamento l´opposizione non ha potuto legare il suo comportamento “responsabile” all´eliminazione di questa parte del decreto, più inaccettabile di altre. L´amputazione dell´opposizione non è affare di una parte. È la perdita per l´istituzione Parlamento della sua capacità rappresentativa, dell´essere il luogo dove più sonora e legittima deve risuonare la voce dei cittadini.
La rappresentanza si sposta altrove. Lo sciopero generale della Cgil deve essere valutato anche con questo criterio, ultimo esempio di una catena di avvenimenti che dall´autunno dell´anno scorso ha messo in evidenza che nella società italiana, così come sta accadendo in altri paesi, stiamo vivendo una crisi della rappresentanza tradizionale alla quale si accompagna una spinta sociale a creare nuove forme di rappresentanza. Il mondo del lavoro e quello della scuola e della cultura, le donne di “Se non ora quando”, i comitati per l´acqua pubblica sono le manifestazioni visibili di un movimento che mostra come l´Italia stia cambiando e, al tempo stesso, come i ceti politici tradizionali non siano ancora in grado di cogliere l´importanza grande di questo mutamento. I successi del centrosinistra nelle elezioni amministrative, la straordinaria vittoria nei referendum non sarebbero stati possibili senza quelle mobilitazioni, che avevano creato il clima propizio ad una partecipazione intensa dei cittadini. Ilvo Diamanti ha opportunamente sottolineato che il 16% degli elettori, (più di sette milioni di persone, un terzo delle quali giovani) ha fatto campagna elettorale per le amministrative e i referendum.
Quella “primavera italiana” è stata frettolosamente archiviata. Nessun segno di attenzione da parte degli attori politici ufficiali. Dopo che 27 milioni di persone avevano detto sì ai referendum sull´acqua pubblica, mi sarei aspettato che il segretario del Pd, in primo luogo, chiedesse un incontro con i comitati promotori, artefici di tanto successo, capaci di aprire canali rappresentativi adeguati ai tempi. Se questo fosse avvenuto, se si fosse compresa l´importanza di quella svolta politica, forse si sarebbe giunti con minor debolezza al difficile appuntamento estivo con la crisi finanziaria e non si sarebbero secondati i tentativi di cancellare i risultati dei referendum, visibilissimi nel decreto. L´occasione per creare un collegamento tra vecchie e nuove forme di rappresentanza, indispensabile per ridare senso ad una democrazia rappresentativa ormai inscindibile dalla democrazia “continua” resa possibile da Internet, dunque per riconciliare cittadini e istituzioni, rischia così d´essere perduta.
La Repubblica 14.09.11