Riaprono le scuole. Bisogna raccontare tutto quello che non va. Ma c’è anche da immaginare possibilità, sogni da costruire, speranze. Parlare di scuola oggi vuol dire immaginare una sua rinascita, un cambiamento. Del resto si apprende solo grazie ai cambiamenti. E se lo fanno i nostri ragazzi lo deve fare il Paese. Bisogna partire da una constatazione: non si può guardare alle generazioni future senza permetterne i sogni. Ed è la scuola ben fatta la prima sorgente di quei sogni. Ovunque nel mondo. Eppure, in questa brutta stagione italiana, due tsunami si stanno abbattendo sulle scuole. Il primo tsunami è partito dai tagli lineari del governo. Otto miliardi in tre anni. Che riducono classi, numero dei dirigenti e docenti, ore di scuola e per l’integrazione dei bambini in difficoltà. Il secondo ci arriverà addosso come diretta conseguenza dei tagli agli enti locali, che li costringerà a ridurre i soldi per asili nido, mense, progetti per i giovani, scuole d’infanzia, assistenza ai disabili, edilizia scolastica e sicurezza. Nessun Paese occidentale o emergente lo ha fatto, nonostante la crisi. Oggi siamo a 4,2% del Pil investito in istruzione, penultimi in Europa. E il Def prevede di far scendere gli investimenti alla scuola fino al 3,4% del Pil. La media Ocse è 5,7%. E tutti conservano o aumentano i soldi per la scuola. Obama ha appena annunciato investimenti per rispondere alla crisi e tra questi vi sono aumenti agli insegnanti ed edilizia scolastica. Il governo ha operato una scelta folle. Che l’Italia non aveva mai fatto. Né quando, poverissima, iniziò la sua vita di nazione cento cinquanta anni fa, né durante le crisi e le guerre dello scorso secolo. Mai. Perché l’investimento in istruzione contribuisce grandemente allo sviluppo. Infatti ha favorito il nostro boom economico e ora quello di India, Cina, Corea, Brasile.
Ci sono sprechi da tagliare? Certamente sì. Ma un conto è fare una seria disamina degli sprechi e metterci mano e altro sono tagli che rivelano un massiccio disinvestimento e che, inoltre, si sono operati in modo lineare, senza alcun criterio pedagogico, nella mera ottica del risparmio.
Quando togli cifre così grandi in questo modo, succedono molte cose e gli effetti sono maggiori della loro somma. Se aumentano gli alunni per classe diminuisce la possibilità di attenzione rivolta a ciascuno, cala la probabilità di differenziare gli approcci didattici e mettere su laboratori, c’è meno tempo per mettere in contatto le competenze da costruire in classe e le tante cose che i ragazzi imparano anche fuori da scuola. Diventa più difficile creare buone situazioni di verifica e correggere i compiti di ognuno, ecc. Se diminuiscono le ore questi effetti negativi si moltiplicano e, inoltre, c’è meno tempo per parlarsi tra scuole e famiglie. Se, poi, le nuove immissioni in ruolo dei docenti coprono appena i posti di chi è andato in pensione, allora a gestire le nuove difficoltà sono un numero immutato di precari. I quali cambiano scuola quasi ogni anno. Così diminuisce ancor più la possibilità di costruire una relazione e una costanza di lavoro tra docenti e ragazzi. Se chi ha difficoltà ha meno sostegno, ciò punisce i più deboli ma anche tutti gli altri. Se, in aggiunta, questa situazione è governata da un dirigente che non si occupa più di una sola scuola ma di tre – un terzo delle scuole è oggi in questa situazione – allora aumenta il caos e il senso di solitudine di scuole, docenti, genitori. Fin quando se ne parla così è un conto. Quando si pensa al proprio figlio è un’altra cosa. «Perché il prof. non ti ha ancora restituito il compito corretto?». «Perché si sono chiusi i laboratori?». «Perché a Angelina hanno tolto le ore nonostante stesse faticosamente affrontando la dislessia?». «Perché si va meno in palestra?». «Perché non fate più i gruppi di livello di inglese?».
Sì, è una follia. Ma anche una miseria umana. Perché qualsiasi comunità che non sa puntare sui suoi figli ha poco cervello ma anche poco cuore. E questo è ancor più vero perché le sfide educative sono aumentate e non diminuite. I modelli educativi sono diventati più fragili e cresce il bisogno di accordarsi tra genitori e docenti. I bambini poveri e la dispersione scolastica non diminuiscono. L’uso diffuso dei media, l’aumento delle complessità del sapere, e delle interconnessioni tra discipline una volta ben distinte o tra teorie e costruzioni pratiche sono tutte cose che comportano un più ricco uso di spazi, tempi e modi di apprendimento. Le rivoluzioni culturali, politiche, tecnologiche in atto richiedono una scuola più ricca e non certo ridotta a meno ore svolte come ai tempi dei nostri padri.
Si impone una radicale riflessione su come cambiare a fondo l’idea stessa di scuola. Un esame di sprechi e conservatorismi inaccettabili è urgente. Molti propongono finalmente stimoli all’innovazione. Ma una stagione di tagli lineari non favorisce affatto queste cose. Si deve subito invertire una rotta basata sul disinvestimento e mettersi nel solco delle politiche internazionalmente accreditate: investimenti efficaci e innovazione. Molte idee già ci sono. Molte scuole creano cose promettenti. E’ tempo di aprire un cantiere che ridia speranza e opportunità ai docenti, ai genitori e soprattutto ai ragazzi. L’agenda-scuola deve ritornare in cima alla lista.
La Stampa 12.09.11