La notizia è che non fanno più notizia. Grandi riforme, piccoli titoli: anche l’ultimo esercizio d’ingegneria costituzionale (via le Province dalla Carta, dentro il pareggio di bilancio) è finito in un angolino a fondo pagina. Ma il troppo stroppia, e in conclusione nessuno ti prende più sul serio. Specie quando fai salpare un bastimento che viaggia in tempi biblici, come le leggi di revisione costituzionale. Perché allora dovrai avviare un dibattito fra i partiti e nel Paese, formalizzare una proposta condivisa, ottenere due approvazioni dalla Camera e altrettante dal Senato, probabilmente affrontare un referendum. Meglio farlo agli esordi della legislatura, c’è più tempo. E meglio mettere in mare un’imbarcazione alla volta, per evitare collisioni. D’altronde non è un caso che nelle ultime due legislature l’Italia abbia licenziato due soli emendamenti alla Carta del 1947 (e zero emendamenti in questa).
Invece il governo Berlusconi è rimasto a braccia conserte nei primi tre anni della legislatura, poi ha sparato 4 colpi in 5 mesi. Nell’ordine: per abbassare l’età minima dell’elettorato attivo e passivo (marzo). Sulla giustizia (aprile). Sulle libertà economiche (maggio). Infine quest’ultimo progetto ancora fresco di stampa. Totale: 27 articoli della Costituzione, un quinto della sua cifra complessiva, con un vestito tutto nuovo. E ovviamente senza risparmiare sulla stoffa: per introdurre il pareggio di bilancio il governo ha usato 293 parole, per abrogare le Province ne ha messe in fila 823. Ma la logorrea dev’essere una malattia comune sia a destra che a sinistra: nel 1999 un governo D’Alema gonfiò da 3 a 8 commi l’articolo 111 della Costituzione, allo scopo d’inocularvi un principio (il giusto processo) già iscritto nell’articolo 24.
Di questi tempi ci s’alza la mattina con l’idea di cambiare l’una o l’altra regola della nostra Carta, ha detto Napolitano; sicché l’improvvisazione si coniuga all’approssimazione. Come dargli torto? Da Capodanno sono già 59 i disegni di legge costituzionale depositati in Parlamento; ma diventano 371 se contiamo dall’inizio della legislatura. Proposte qualche volta eroiche, come quella del senatore Divina: mentre tutti vogliono cancellare le Province, a maggio lui ha chiesto d’istituire la Provincia autonoma di Ladinia. Più spesso esotiche o bislacche, come le fantasie costituzionali che oppongono il deputato Cirielli alla senatrice Poli Bortone: il primo vorrebbe battezzare la Regione dei due principati, la seconda opta per il Principato di Salerno. Sempre meglio di Iannarilli, che trasformerebbe Roma in Regione, con buona pace della geografia. Di Massidda, che pretende un nome sardo per lo statuto sardo («Carta de logu de Sardigna»). O di Malan, secondo il quale ogni nuovo Parlamento dovrà insediarsi obbligatoriamente di giovedì, giorno dell’Ascensione.
È il festival dei costituenti per caso: il vincitore ottiene in premio un cappello da Napoleone. Ma a perdere, ahimè, siamo noi tutti. Perché questo virus riformatore corrode l’autorità della Costituzione, ci abitua a considerarla un ferro vecchio. Perché abusa della leva costituzionale, quando in molti casi basta e avanza una legge (Bersani fece le sue liberalizzazioni senza scomodare la Carta, Tremonti non le ha fatte e se la prende con la Carta). Perché sovente la riforma è un trucco (quella governativa che abolisce 108 Province farebbe sorgere almeno 200 associazioni tra Comuni). E perché infine basta, non ci crediamo più. D’altronde il nostro scetticismo è anche una difesa: con questi padri (af)fondatori, pensa che guai, se putacaso il loro bastimento arriva in porto.
Il Corriere della Sera 11.09.11