Dividere, sfaldare, frammentare il fronte sociale unitario che ha dato vita all’accordo del 28 giugno.
Creare un pantano là dove può nascere un grande motore riformista. Minare i principi di una intesa capace di avviare il paese su un sentiero di cooperazione e di sviluppo sostenibile.
Gli effetti dell’ormai famigerato articolo 8 della manovra sono tutti racchiusi in questo sciagurato perimetro. La mossa del governo è un’ entrata a gamba tesa su quello che da sempre è il principale cardine del giuslavorismo italiano: l’autonomia delle parti e la loro esclusiva potestà in materia di contrattazione. Questa interferenza, considerata grave da tutto il mondo del lavoro, mira a creare un solco dove invece andrebbe costruita una strada.
E rischia così di neutralizzare la più grande opportunità di coesione e di rilancio data oggi al paese. L’accordo interconfederale di due mesi fa rappresenta un formidabile riferimento per avviare una stagione di crescita e di riforme concertate. La sintesi raggiunta dalle maggiori organizzazioni sindacali e da Confindustria pone oggi il corpo sociale nella condizione di avanzare concretamente sul sentiero della riforma dei rapporti aziendali.
Di trovare un punto di equilibrio tra flessibilità ed equità, competitività e solidarietà. Un governo e una maggioranza degni di questo nome avrebbero dovuto limitarsi a recepire quel documento, allargandone gli effetti erga omnes e avviando nel contempo una intensa attività concertativa, nel rigoroso rispetto delle reciproche sfere di competenza. L’articolo 8 va invece decisamente (e deliberatamente) in un’altra direzione. Stabilisce deroghe non incluse nel documento, pasticcia gravemente sulla rappresentanza, pone le condizioni per moltiplicare scontri aziendali e contenziosi.
Entra insomma nel merito di un accordo che aveva raggiunto la sua tensione ideale, tentando di scardinarne gli equilibri. Nel contesto di grave crisi che sta attraversando il nostro paese, non è possibile immaginare operazione più cinica e irresponsabile.
Il tentativo di creare spaccature all’interno del mondo del lavoro è da sempre costante di questa destra. Che vede nella mobilitazione unitaria delle organizzazioni sociali una tremenda minaccia invece di una formidabile occasione per realizzare riforme strutturali, condivise e durature. Fobia storica, che trova spiegazione nella scientifica impostazione antisociale delle politiche di Berlusconi, Bossi e Tremonti.
Un’asse che da sempre mortifica le ragioni della coesione e della redistribuzione della ricchezza, gravando i lavoratori, i ceti medi e quelli popolari dei maggiori sacrifici. Questa caratteristica si arricchisce oggi di un paradosso senza precedenti. In coincidenza dell’approvazione di questa manovra, sono infatti molti gli i membri della upper class italica a chiedere al governo di spostare il carico sui ceti più abbienti. Coscienti che un’Italia dove crescano ancora i divari è un’Italia senza futuro, gli stessi ricchi chiedono oggi di poter contribuire di più al risanamento. Ma l’esecutivo glielo nega. Uno scenario da teatro dell’assurdo.
Davanti all’ottusità del governo e alla evidente sua incapacità di interpretare la delicatezza del momento, non resta che battersi. Dentro e fuori dal parlamento. Il contributo che può arrivare in questo senso dal corpo sociale è determinante e imprescindibile.
Ma il fronte deve rimanere compatto, cosciente della propria irresistibile forza riformista. Memore della grande stagione concertativa del ‘92-’93. E consapevole che da questa parte c’è chi sa ascoltarne la voce e recepirne le istanze.
da Europa Quotidiano 06.09.11
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“Torniamo al parlamento”, di Federico Orlando
Oggi riapre il parlamento: l’aula del senato e, domani, Montecitorio. In agosto ha lavorato la commissione bilancio del senato, dove il governo ha presentato la sua manovra argentovivo, facendo impazzire i senatori coi cambiamenti continui, fino al colpo alla nuca di sabato contro i lavoratori: d’ora in poi licenziabili col consenso dei sindacati gialli.
Ma è solo col dibattito nelle aule che avremo non soltanto il confronto sulla manovra, sulla lontananza siderale fra questa e i 400 miliardi per il pareggio e lo sviluppo di cui ha parlato qualche possibile risanatore “tecnico”; ma anche sul rapporto tra gli onorevoli morituri e la capacità delle istituzioni rappresentative di risanarsi, sotto il pungolo e la guida morale del capo dello stato.
Non dimentichiamo che il sistema parlamentare ebbe in Italia la sua prova del fuoco, e la superò, dopo il proclama di Moncalieri (vero presidente Napolitano?) seguito alla disfatta di Novara. Che sta alla nostra storia militare come il quasi default di queste settimane alla storia economica.
Parlando alle platee di Rimini e di Cernobbio, Napolitano ha disilluso completamente chi s’illude che “dopo Berlusconi le urne”.
Invece no. Qualsiasi for president si scriva sulle schede, l’Italia non è repubblica presidenziale, ma parlamentare, governa chi riceve la maggioranza dei voti in parlamento; e quando questo stato di grazia finisce, il Quirinale chiama qualcun altro a ricomporlo: interno o esterno al parlamento poco importa, tutti i governi essendo parlamentari e quindi politici. Ciampi docet. E non perché la politica si sia ristretta ad arte del potere, come pensavano alcuni filosofi postkantiani, ma al contrario perché ritrova, dopo le orge e le sarabande del berlusconismo, la sua funzione di massima pedagogia sociale, e guarda oltre i suoi steccati.
Stamattina molti (come chi scrive) guarderanno a piazza Navona, dove la Cgil celebra il suo sciopero generale; così come molti guardano a migliaia di ragazzi che con le prove d’ammissione alle università si cimentano per l’avvenire; e alle acciaierie del Nord e ai vigneti del Sud, dove quasi ci si vergogna di incrociare gli occhi con quelli dei “negri”, a cui il governo degli evasori aveva pensato di imporre il pizzo sulle rimesse alle famiglie.
Se Napolitano è lontano mille miglia da Kerensky e il parlamento non è la dieta polacca, ne vedremo i frutti nelle prossime settimane: quando, finita la manovra, l’opposizione (dal Terzo polo al Pd all’Idv) tornerà a chiedere un nuovo governo di unità nazionale o, Casini permettendo, di risanamento nazionale.
A cavallo tra agosto e settembre, i primi segnali del parlamento non sono stati incoraggianti circa un suo ravvedimento: sia per la docilità della commissione bilancio del senato a discutere progetti di manovra che il governo modificava il giorno dopo, sia nel respingere la riduzione del finanziamento pubblico ai partiti o il pagamento dell’Ici per gli immobili della Chiesa non destinati a funzioni religiose.
Eppure, imprenditori e sindacalisti, capipartito e cardinali, hanno esaltato lo “spirito comune” con cui Napolitano ha pungolato ad operare. Il presidente sa bene che il governo senza il parlamento non ce la fa, e che questo, senza lo spirito comune, non resiste alle prevaricazioni di un governo sia pure morente.
La situazione l’ha raccontata al premier e non solo a lui Il Sole 24Ore di domenica: nell’Unione europea e nella Banca centrale l’opinione corrente è che il governo italiano meriterebbe d’essere punito per la sua folle carnevalata. Ma – scrive Zingales –, abbandonare l’Italia al suo destino «equivarrebbe alla fine dell’euro», porterebbe quasi inevitabilmente a un default del paese che contagerebbe anche Francia e Germania. Insomma, se l’Europa castigasse il governo sarebbe giusto, ma avrebbe «effetti catastrofici». C’è una sola via, «che sia il nostro parlamento a punire il governo per la sua inettitudine.
Non è tanto un problema di maggioranza quanto di capacità e di credibilità: o si cambia o si esce dall’Europa». Deputati e senatori da oggi sono chiamati a questa responsabilità personale e collettiva. Chissà se anche questa responsabilità farebbe parte del «paese di m.» di cui parla Berlusconi.
Chissà se in parlamento troverebbe ad attenderlo l’«opposizione criminale », come il premier, abituato a consigli d’amministrazione e falsi in bilancio, definisce la funzione istituzionale della minoranza.
Una cosa è certa, l’Italia deve recuperare in questo momento quella che fu definita la linea istituzionale dei suoi governanti, in alternativa alla linea conflittuale. L’ultimo degli istituzionali fu De Gasperi, «che lavorò a rafforzare lo stato contro il quale i cattolici erano stati dal 1860 al 1994».
L’ultimo dei conflittuali fu Moro, che pensava giolittianamente di gestire la crisi economica insieme al Pci per togliergli la pienezza dell’opposizione sociale. Gioco pericoloso, che Berlinguer turatianamente accettò per qualche tempo. A noi sembra che lo «spirito comune» chiesto da Napolitano a maggioranza e opposizione comprenda sia la linea istituzionale – di cui è interprete e garante lo stesso Quirinale – sia la linea conflittuale, non in vista di un nuovo Caf (Casini Alfano Formigoni), ma di «un futuro in cui tutti sarebbero stati diversi», secondo l’architettura morotea, nella bella analisi storico-politica dell’ambasciatore Romano.
Il parlamento può emendarsi e liberarsi dalla lunga dittatura berlusconiana (50 voti di fiducia, o giù di lì), anche guardando fuori dalle sue aule, nelle piazze dove si raccolgono le firme per abolire il Porcellum e ripristinare, in attesa ormai trentennale del doppio turno di collegio, un Mattarellum che intanto ci ridia i collegi e consenta un bipolarismo soft, senza la mannaia dell’uninominale anglosassone: mannaia un po’ infradiciata, come le ultime elezioni inglesi, e il relativo governo di coalizione, hanno mostrato.
Risanamento e riforma elettorale sono le due conquiste con cui la “sessione parlamentare” che si apre oggi può salvare il paese, se stessa, la legislatura fino al 2013, esprimendo per il governo formule nuove garantite dal Quirinale, cioè dalla Costituzione, e invocate dagli italiani. Come anche l’ex dogma dei sondaggi dimostra.
da Europa Quotidiano 06.09.11