L’Italia è oggi il punto debole dell’euro. La sua fragilità politica rischia di danneggiare in modo irreparabile tutta la costruzione europea, moltiplicando i danni anche per noi. Però c’è qualcuno che non l’ha capito, oppure se ne infischia. Le misure per impaurire gli evasori fiscali in gran parte scompaiono, i taxi non si liberalizzano, niente apertura deregolamentata per i negozi, e così via. Già la manovra di Ferragosto era stata fatta a pezzi e rimessa insieme di nuovo a causa di nervosi timori di impopolarità; ora la commissione Bilancio del Senato sta espungendone molte norme invise alle lobby amiche.
Il guaio è che i tempi della crisi dell’euro, già da mesi più veloci della capacità di risposta dei governi, sono ora strettissimi. La Grecia non sta rispettando gli impegni, è in recessione grave, e a qualche punto nel prossimo futuro potrebbe decidere di rinnegare i propri debiti. Se il Fondo monetario internazionale insiste che occorre ricapitalizzare di forza le banche europee, è perché vi vede l’unica maniera di fermare il contagio di una insolvenza di Stato, evitando un disastro continentale. L’attacco dei mercati finanziari si concentra contro il Paese too big to be saved, troppo grande per essere salvato, che è il nostro.
L’Italia ha eroso in una settimana il sostegno temporaneo offertole dalla Banca centrale europea, mentre la Spagna riusciva a giovarsene.
E’ un nuovo paradossale «sorpasso» tra i due Paesi, tanto più significativo perché a Madrid si voterà tra due mesi e mezzo. Anzi, il presidente del consiglio europeo Herman Van Rompuy arriva ora ad accomunare Roma ed Atene: che la Grecia stia molto peggio non c’è dubbio, ma in entrambi i casi ci sono governi che potrebbero non mantenere le promesse.
L’irrazionalità dei mercati finanziari è evidente. Nelle quotazioni dei titoli di Stato ieri, a prestare soldi alla Germania ci si perde – un rendimento sotto il 2% non copre l’inflazione – mentre a prestare all’Italia si guadagna più del 5,5%. Il paradosso nasce dal timore che solo dalla Germania i capitali tornino indietro interi; mentre una rottura dell’euro renderebbe impossibile all’Italia pagare i propri creditori. La medesima ipotesi di catastrofe produce altri numeri ripugnanti al buon senso: sul mercato dei famigerati Credit default swaps, l’insolvenza dello Stato francese viene reputata meno remota di quella del Perù.
Può darsi che un rimedio contro le pazzie dei mercati esista, ma per trovarlo occorrerebbero la concordia delle grandi nazioni e un bel po’ di tempo. E al centro del vortice perverso di attese capaci di inverarsi ora c’è l’Italia. Inutile, anzi dannoso, invocare ogni giorno la soluzione degli eurobonds: benché questi titoli comuni restino nei sogni di ogni buon europeista, nel pieno della crisi appaiono ai tedeschi solo un espediente per addossare a loro gli errori nostri. Già avvalorano il loro timore le agenzie di rating.
Per evitare che la credibilità dell’Unione monetaria europea sia allineata a quella dei suoi membri più deboli (la minaccia di Standard & Poor’s) occorre un passo decisivo verso l’unione politica. Lo hanno sollecitato, concordi, il presidente della Bce Jean-Claude Trichet e il suo successore designato Mario Draghi. In Germania se ne sta cominciando a discutere sul serio, diviso il centro-destra ora al governo, perlopiù favorevole il centro-sinistra vittorioso in una elezione locale dopo l’altra. Ma perché il dibattito a Berlino e in altre capitali prenda la direzione giusta, occorre che l’Italia si salvi da sola. Purtroppo, dopo anni in cui si è creduto di vedere un segno di vitalità economica nel fare i propri comodi a dispetto delle leggi, non è facile chiamare alla responsabilità e alla solidarietà.
La Stampa 06.09.11