L ’Italia deve tornare a crescere. Ne ha un bisogno vitale. Guai se le apparenze di questo progressivo declino accreditassero l’idea che i problemi strutturali possono essere ancora rinviati. Che, tutto sommato, il nostro modello sociale riuscirà a conservarsi, pur ammaccato, finché vivremo.In realtà già siamo in grave ritardo, come ha giustamente ricordato ieri il presidente della Repubblica. E i danni del decennio dominato dai governi Berlusconi hanno inciso sulla carne viva, le aspettative, persino gli umori delle persone: che sicurezza può avere un Paese che ha il record negativo in Europa di occupazione giovanile e femminile, che vanta il tasso di sviluppo più basso del mondo (dopo Haiti) nei primi dieci anni del secolo, che accelera solo nella divaricazione delle ricchezze mentre il grafico dei salari reali volge in picchiata? Ci sarebbe bisogno di un grande impegno nazionale. “Se non ora quando?” hanno gridato in piazza le donne, che si sono poste esattamente il tema della ricostruzione morale, culturale, civile. Per abbattere il debito pubblico sotto il 100% e impedire che gli interessi su quel debito azzerino gli investimenti sul futuro, è necessario un progetto almeno decennale. Per riportare i giovani in cima all’agenda delle priorità bisogna costruire un grande piano per il lavoro, che abbia come rotta i saperi, la cultura, la scuola. Per mantenere il made in Italy nella competizione mondiale si deve puntare sulla qualità come chiave per aumentare la produttività. E sul ripristino di politiche industriali, colpevolmente abbandonate dal governo. Naturalmente, tutto ciònon sarà gratuito. Costerà sacrifici. Ma l’inerzia è stata troppo lunga e già scontiamo una condanna. Le speranze rubate ai giovani sono fin d’ora la disperazione dei loro padri. Scomoderà tutti il necessario cambio di passo. Tuttavia sono necessarie alcune condizioni. La prima è che i sacrifici abbiano un carattere di equità: le ricchezze reali devono contribuire in misura maggiore. Innanzitutto quelle legate ai grandi patrimoni immobiliari e alle rendite finanziarie: il contrario insomma di ciò che accade con la manovra di Berlusconi. La seconda è che i tagli non siano “lineari”, perché così pagano i ceti più deboli e vengono tutelate le corporazioni più forti. Ma a questo punto bisogna anche dire con chiarezza che le dimissioni di Berlusconi e il cambio del governo sono condizioni non meno essenziali di un rilancio del Paese. Non c’è eccesso polemico in questa obiettiva considerazione che ormai fanno tutti, in Italia e all’estero. La prova desolante, anzi umiliante, della manovra anti-crisi approvata e smentita, riapprovata e corretta, capovolta e tuttora incerta nei contenuti, conduce ormai a un giudizio definitivo sull’inaffidabilità, sulla non credibilità del premier e della coalizione Pdl-Lega. Per di più il pericolo è aggravato dai rovesci del mercato, che espongono i nostri titoli del debito pubblico alle speculazioni, collocandoci come una delle frontiere più esposte dell’area euro. Cambiare il governo e aprire una nuova stagione è la premessa di una politica ricostruttiva, che dovrà avere proprio l’Europa come orizzonte. Del resto il governo Berlusconi che tenta di barricarsi usa la divisione ideologica (ad esempio del sindacato) come strumento per sopravvivere. Così si impedisce qualunque convergenza politica e, fatto ancor più grave, si rompe la coesione sociale. Lo sciopero generale proclamato dalla Cgil per martedì prossimo sarà un’occasione di mobilitazione e di partecipazione. Si avverte un consenso diffuso e crescente. Pur nella dolorosa divisione sindacale, questo sciopero porta un segno di ricomposizione della protesta edà ad essa una rappresentanza sociale. La convergenza, la coesione dei corpi intermedi, resterà un obiettivo anche dopo lo sciopero. Ma intanto avrà voce l’altra Italia. E le istanze di cambiamento – anche all’interno di questa iniqua manovra – si rafforzeranno (come ha dimostrato ieri l’approvazione in commissione di un altro emendamento Pd, sul recupero delle rate non pagate del condono di Tremonti). Cambiare non sarà una passeggiata di salute. Nessuno può illudersi che il mondo tornerà come prima. Ma se non si romperà questa gabbia del berlusconismo declinante, rischiamo di restare tutti soffocati. Anche perché l’antipolitica di destra e quella che si autodefinisce di sinistra sono all’opera per distruggere ciò che resta. Le piazze di martedì saranno un segno di speranza: e ha un grande valore culturale ciò che Susanna Camusso ha detto a proposito dei danni dell’antipolitica. Speriamo che dalle piazze questo vento di speranza arrivi anche nelle istituzioni.
L’Unità 04.09.11