L´altalena della manovra, cambiata di continuo, rischia di affondare la credibilità italiana agli occhi dell´Europa. Giorgio Napolitano decide che in questo tormentato cammino è arrivato il momento di far sentire la sua voce. E sceglie il summit di Cernobbio, in videoconferenza dal Quirinale, per presentare il «conto» e far balenare l´idea che in caso di crisi di governo nulla sarebbe scontato: «Il governo resta al suo posto finché ha la maggioranza. Ma il giorno in cui dovesse aprirsi una crisi, la Costituzione mi dà anche la facoltà di indicare la persona che deve formare l´esecutivo». Il presidente della Repubblica chiede al governo «chiarezza e certezza di intenti e di risultati», di far piazza pulita delle tante «oscillazioni nocive», che hanno come conseguenza «il riemergere sul nostro paese di antiche diffidenze», e di fare in fretta nell´approvazione della legge.
Ben prima, precisa, «dei sessanta giorni rituali per la conversione del decreto del 13 agosto scorso». Sceglie dunque la superplatea del Workshop Ambrosetti, con i big dell´Eurotower, i premi Nobel dell´economia e i grandi banchieri, per lanciare dal Quirinale lo stop ai balletti ma anche per offrire le sue personali rassicurazioni a Trichet e alla Bce che ci osservano perplessi e vogliono garanzie sul rispetto dei target fissati per il rientro dal debito entro il 2013. «E´ essenziale che l´obiettivo annunciato di diminuzione del debito sia pienamente confermato e implementato», ha osservato il presidente della Banca centrale europea rivolgendosi direttamente al capo dello Stato. Facciamo e faremo quel che dobbiamo fare – si impegna dunque Napolitano – «non in obbedienza ad imposizioni che provengono dall´esterno ma nell´interesse del nostro paese».
Ma, come gli domanda l´ex ambasciatore Sergio Romano, non è arrivato il momento di giocare la carta di un «governo diverso» per realizzare risanamento e maggiore coesione fra i partiti? Il convitato di pietra del governo tecnico si riaffaccia. Napolitano non dribbla la risposta. Descrivendo due diversi scenari. Il primo, che è quello attuale. «Fino a quando c´è un governo che ha la maggioranza in Parlamento, comunque esso agisca, io non posso sovrappormi con il fatto, ma nemmeno con l´idea, di un governo diverso. Non siamo in una Repubblica presidenziale, siamo una democrazia parlamentare». Ma, ecco la seconda ipotesi, «il giorno in cui si aprisse una crisi di governo, cosa che sembrava potesse accadere alla fine dell´anno scorso ma poi non si è verificata, chiamerei a consulto tutte le forze politiche e mi assumerei la responsabilità anche di fare una proposta per la soluzione della crisi. La Costituzione mi dà sempre, tra l´altro, la facoltà di incaricare la persona che debba formare il nuovo governo: in quelle circostanze farei la mia parte. Non posso, invece, andare oggi al di là del mio ruolo istituzionale».
Una ricostruzione delle competenze formali assegnate all´inquilino del Colle, ma che sembra contenere implicitamente qualche avviso ai naviganti nell´eventualità di un Berlusconi al capolinea. Dal Quirinale lo scenario delle elezioni anticipate resta escluso, se non come ultima spiaggia, e dunque le schiere del «voto subito» sono avvertite. E per scongiurare il rischio delle urne, il capo dello Stato lavorerebbe alla ricerca di altre maggioranze che, con quell´accenno al potere di indicare il nuovo premier, potrebbero essere aperte a tutte le soluzioni.
La Repubblica 04.09.11
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E il Cavaliere avverte gli alleati “Il Colle sa che se cado si va al voto”, di Carmelo Papa
L´incubo mercati e lo spettro della crisi. E un avvertimento del Colle che lascia intatto lo stato di allerta. «Napolitano è stato corretto, ha messo in guardia tutti i complottisti che sono al lavoro contro di me fuori dal Parlamento». È questo l´apprezzamento che, in prima battuta, Berlusconi ha condiviso coi suoi da Arcore. Ma il risvolto neanche tanto implicito di quell´intervento dell´inquilino del Colle rivolto agli economisti di Cernobbio è piaciuto molto meno, al presidente del Consiglio. Il Quirinale ha fatto riferimento a quel che accadrebbe in caso di crisi, ai poteri che la Costituzione riconosce al capo dello Stato, dunque al “piano B”, che contempla la possibilità che le Camere non vengano sciolte. «A Napolitano deve essere chiaro che se cade il mio governo si va al voto – è stato lo sfogo in seconda battuta del premier – Non ci sono alternative, soprattutto non ci sarà mai un governo tecnico: noi non lo sosterremo mai».
È un lungo fine settimana col fiato sospeso, quello che si sta vivendo in queste ore lungo l´asse Villa San Martino-Palazzo Chigi, in attesa della riapertura delle borse di domattina. I segnali recapitati da Bruxelles negli ultimi giorni, gli avvertimenti sulla manovra italiana ballerina, non sono stati rassicuranti. Tanto meno lo è stata la chiusura di Piazza Affari venerdì scorso. La preoccupazione fa capolino tra dirigenti e ministri pidiellini, mentre il decreto salva-conti completa l´iter in commissione al Senato e si appresta a passare all´esame dell´aula, da martedì. Il timore che confidano in tanti tra loro è che un eventuale crollo dei mercati domani possa far precipitare titoli e situazione finanziaria. In quel caso, sostengono i berlusconiani, «Tremonti dovrebbe farsi da parte». Il tam-tam è insistente in queste ore: il sacrificio sull´altare della crisi del ministro inviso ai più, dentro il partito. Ma è una previsione che, sebbene per lui «comoda» sotto certi profili, il Cavaliere preferisce non fare. Il premier sa bene infatti che se tutto precipitasse fino a quel punto, anche per lui sarebbe difficile tenere in piedi il governo. Il timone della barca alla deriva rischierebbe a quel punto di sfuggirgli di mano. I due ormai ex inseparabili, il presidente e il professore, si reggono sempre più a vicenda. Tanto più che il capo dello Stato ieri è stato abbastanza nel descrivere il recinto entro il quale intende muoversi in caso di crisi, che è poi quello che gli riconosce la Carta costituzionale. Il governo c´è finché la maggioranza parlamentare regge. Se questo presupposto dovesse venire meno, allora lo scioglimento delle Camere non sarebbe affatto l´unico approdo. Non certo il primo. Esiste d´altronde un precedente che il Quirinale terrebbe in considerazione, quello della nomina di un governo tecnico alla Ciampi (1993) che ha segnato un´altra fase assai turbolenta della Repubblica. Nessuna intenzione di interferire nelle vicende politiche, da parte del presidente Napolitano. Consapevole tuttavia dei suoi poteri in caso di crisi e ancor più convinto che il ricorso alle urne non sarebbe la via preferibile mentre il paese è sotto attacco speculativo.
Berlusconi prova perciò a uscire indenne dalla tempesta. Resa ancora più insidiosa dal nuovo ciclone giudiziario che, sulla scia dell´arresto di Tarantini, sta riportando alla ribalta scandali privati e vulnerabilità pubblica del premier. Sebbene un ministro lo descriva «incazzato, più che preoccupato» dopo l´interrogatorio della fedelissima segretaria Marinella Brambilla e alla vigilia di una sua possibile convocazione da parte dei pm napoletani. Come se non bastasse, la doccia gelata fatta scendere in serata da Calderoli sulla prospettiva di una ricandidatura del leader Pdl alla premiership nel 2013 non fa che accrescere le incognite sul futuro della coalizione e, soprattutto, su quello personale del premier. La parola d´ordine dettata da Arcore dunque è portare a casa al più presto la manovra. Raccontano che il presidente del Consiglio abbia seguito anche ieri a distanza i lavori in corso in commissione al Senato, intervenendo in prima persona sui suoi sottosegretari per far cancellare la norma che prevede la pubblicazione delle dichiarazioni dei redditi on line. Perché passi pure l´intensificazione della lotta all´evasione, come ha voluto Tremonti, ma raccontano che Berlusconi quella disposizione «da stato Torquemada» non vuole leggerla più nemmeno nella bozza del provvedimento.
La Repubblica 04.09.11
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“Il Colle e i paletti istituzionali su crisi e governi tecnici”, di Marzio Breda
La dietrologica categoria del «vorrebbe, ma non può» è una costante delle analisi politiche in Italia. Specie quando si ha a che fare con le più alte cariche dello Stato, che non a caso spesso schivano le domande imbarazzanti recriminando sulle proprie mani legate. Così è successo anche ieri. Quando qualcuno ha preteso di interpretare le parole del presidente della Repubblica, in risposta a un quesito con cui l’ambasciatore Sergio Romano ventilava l’ipotesi di un esecutivo tecnico (ma lui, con più garbo, ha detto «composto da persone che non abbiano immediate preoccupazioni elettorali»), come un modo per cavarsela.
Insomma: la replica con la quale Giorgio Napolitano ha stoppato il tormentone su un prossimo gabinetto post-Berlusconi, spiegando che «finché c’è un governo in carica che abbia la fiducia della maggioranza in Parlamento io non posso certo sovrapporvi, non dico il fatto, ma nemmeno l’idea di un governo diverso», è parsa ad alcuni osservatori come il frutto di una reticenza obbligata.
Una lettura interessata e sbagliata. Quasi a sottintendere che, «se invece potesse», il capo dello Stato provvederebbe di corsa a sostituire l’attuale inquilino di Palazzo Chigi.
Le cose non stanno così. Non solo perché il presidente non deve, e non può, delegittimare — anche solo almanaccando pubbliche congetture su scenari futuribili — un governo che abbia i numeri alle Camere, «comunque esso agisca». Ma perché, e lo ha ricordato lui stesso in una sorta di memorandum sul proprio ruolo di arbitro istituzionale, «non siamo in una Repubblica presidenziale ma in una democrazia parlamentare». E poi perché si sa che la prospettiva di una destabilizzante cesura alla guida del Paese preoccuperebbe molto Napolitano. Meglio tenerla lontana dal nostro immediato orizzonte. Almeno in una fase critica come quella attuale.
Di più: posto che in ogni caso il governo dovesse cadere per un’implosione della sua stessa maggioranza, il capo dello Stato farebbe di tutto per non chiudere la legislatura. Lo ha spiegato ricostruendo, a uso del pubblico che affollava il forum dello studio Ambrosetti, a Cernobbio, la procedura che il Quirinale aprirebbe. E segnalando con puntiglio le proprie «prerogative», tra le quali rientra quella di «fare una proposta per la soluzione della crisi» e «incaricare la persona» che dovrebbe formare il nuovo esecutivo. Che non sarebbe necessariamente «tecnico» (o in qualsiasi maniera lo si intenda battezzare) e nato dalla volontà del capo dello Stato, secondo le speranze caldeggiate da più parti, nell’opposizione. Infatti, come ha ripetuto spesso, «tutti i governi sono parlamentari» e dunque politici. Restando fermo in ogni caso che, a suo avviso, le elezioni dovrebbero essere soltanto l’extrema ratio. Senza automatismi.
Sarebbero ragionamenti di scuola se non fosse che su tali ipotesi Giorgio Napolitano si è espresso più volte. È successo ad esempio quando «è sembrato che una crisi potesse accadere alla fine dell’anno scorso», con l’uscita del gruppo dei finiani dalla maggioranza, «ma non accadde». E, prima ancora, nell’estate del 2010, quando erano invece le forze del centrodestra a premere affinché lui congedasse subito il Parlamento e, come allora recriminò con sarcasmo e durezza, «mostravano stupore per il fatto che il presidente della Repubblica non fosse pronto, con la penna in mano, a firmare un decreto di scioglimento delle Camere».
Bisogna tenere conto di questi precedenti se si vuole comprendere in che direzione si muove il capo dello Stato. Una direzione che ha sempre reso esplicita. Pure ieri, dopo aver ringraziato il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, «per quanto ha fatto nelle ultime settimane» per l’Italia, raccontando il suo assillo «per l’eccesso di conflittualità tra i partiti e per la forte pressione che calcoli elettorali e di convenienza esercitano». Ecco il senso dei suoi ripetuti appelli a far leva su quanto di positivo entrambi gli schieramenti hanno saputo produrre durante l’estate, dimostrando responsabilità nel varo urgente della prima manovra. La speranza che coltiva ora è che, fermi restando i suoi giudizi di fondo sui provvedimenti necessari (e basta pensare al richiamo a «parlare il linguaggio della verità» e a cancellare «l’intollerabile primato dell’evasione fiscale»), quel filo non si spezzi.
Il Corriere della Sera 04.09.11